Enzo Palumbo 19.05.2010: postilla con ulteriori riflessioni
Qualcuno mi ha chiesto, intervenendo sul sito del PLI, cosa significa quella frase riguardante i precari.
Non posso rispondere per il PLI di oggi, che credo non abbia mai affrontato l’argomento in competente sede, ma posso agevolmente farlo sia per la posizione “storica” del PLI di un tempo, sia per quelle che sono le mie personali convinzioni.
Comincio con la prima per dire che, in proposito, un po’ di storia forse non guasta, a beneficio di chi non ha mai conosciuto la stupenda vicenda politica del Partito Liberale di Malagodi, ed invece pensa che i liberali siano sempre stati quelli sedicenti degli ultimi sedici anni della c.d. seconda Repubblica.
Il c.d. Statuto dei Lavoratori (L. 20 maggio 1970 n. 300), vide la luce durante il terzo governo Rumor di centro-sinistra (ministro del Lavoro il democristiano Carlo Donat Cattin), su originario impulso del precedente ministro del lavoro, il socialista Brodolini, e poi con la regia sapiente del compianto prof. Gino Giugni, che aveva presieduto l’apposita commissione preparatoria che era stata voluta da Brodolini.
L’indomani, l’Avanti titolò, più o meno: La Costituzione entra in fabbrica.
E, sin qui, nulla di particolarmente nuovo o sorprendente.
Ma ciò che forse molti oggi non sanno è che quella legge, pur varata da un governo di centro-sinistra organico con il PLI duro oppositore, passò proprio col voto favorevole dei liberali ed invece con l’astensione dei comunisti.
Il che serve a ricordare che il liberismo selvaggio non è mai appartenuto al DNA dei liberali italiani, quelli veri per intenderci, mentre sembra oggi appartenere anche a tanti ex socialisti, convertiti tardivamente sulla strada di …Arcore.
E passo al secondo punto, cioè alle mie convinzioni di oggi.
Ovviamente, sono ben consapevole che, nel frattempo, sono passati quaranta anni e sia la società sia il mondo del lavoro sono totalmente cambiati, quella di allora essendo una società che veleggiava felicemente verso la piena occupazione, mentre quella di oggi dibattendosi in una recessione crescente, aggravata dalla crisi di questi ultimi anni.
Per farla breve, ricordo soltanto che le certezze che avevano allora accompagnato la nascita dello Statuto si sono nel tempo vanificate, prima in ragione dello sviluppo tecnologico che ha contratto l’ampiezza dell’offerta, poi per la crisi del fordismo ed infine per la recessione crescente, fino alla crisi in atto.
E’ così accaduto che il mercato del lavoro privato, stretto tra la rigidità della garanzia reale fornita dallo Statuto e l’esigenza di mobilità nascente dalla rivoluzione dei metodi produttivi, ha trovato nelle nuove figure contrattuali (co. co. co, progetti, etc.) una sorta di valvola di sfogo per superare il blocco, cosa questa abbastanza comprensibile per la necessità di assecondare le spinte produttive con strumenti sufficientemente flessibili.
Qualcosa del genere, ma con motivazioni e conseguenze ben peggiori, è accaduto nel settore pubblico, in cui i potenti di turno, per aggirare la norma costituzionale (art. 97.3) che prescrive il metodo concorsuale per l’accesso ai pubblici impieghi, si sono via via inventati di tutto e di più (le cooperative e mille altri marchingegni) allo scopo di favorire amici e clienti, ma soprattutto per istituzionalizzare il voto di scambio nel presente e nel futuro, così mettendo sotto ricatto perenne tanti giovani costretti a barattare una parte della propria libertà sull’altare della sopravvivenza quotidiana, senza alcuna prospettiva che consentisse loro di formare una famiglia e di diventare parte responsabile della società nazionale. Ovviamente, ad ogni scadenza elettorale la stabilizzazione dei precari di turno è divenuta merce di scambio per conseguire il consenso e così via all’infinito.
E’ in particolare questa la storia che deve finire; si tratta di una vera battaglia liberale, perché attiene alla libertà di tanti cittadini, a cui la morsa del bisogno sottrae il sacrosanto diritto di scegliere senza condizionamenti i propri rappresentanti, ed anche di programmare serenamente il proprio futuro.
Ecco perché mi sembra cosa buona e giusta quella di adottare, con strumenti “generali ed astratti”, una normativa che risolva definitivamente il problema senza lasciarlo ostaggio di chi, ai vari livelli, continuamente ne approfitta per i propri interessi di bottega politica.
Altra questione è infine quella dei rapporti di lavoro a regime, argomento non trattato nella riflessione iniziale e su cui aggiungo solo qualche parola, come spunto di ulteriore riflessione.
A me sembra che questo problema vada risolto, possibilmente nel concerto coi rappresentanti dei lavoratori, in modo da graduare le rigidità dello Statuto (in particolare dell’art. 18, in primo luogo, riducendo l’area della tutela reale ed incrementando quella della tutela obbligatoria, e poi, in via più generale, introducendo un rapporto di lavoro che sia molto flessibile nella fase iniziale, per poi man mano acquistare crescente stabilità nel corso degli anni; per un verso, si consentirà così all’azienda di verificare le capacità individuali ed al lavoratore di cercare soluzioni migliorative, e per altro verso si garantirà ai lavoratori meno giovani di non essere abbandonati alla loro disperazione nel momento in cui l’età sia divenuta un ostacolo ulteriore nella ricerca del lavoro, già difficile per tutti.
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