Peggio di un crimine, un errore!
pubblicato il 19 ago 2011
(Rubrica "Il Punto ,Intro ")
Si narra che quando nel marzo del 1804 Napoleone Bonaparte, allora primo Console di
Francia e da lì a poco imperatore dei francesi, fece rapire oltreconfine il duca di
Enghien, ultimo discendente diretto del ramo Borbone-Condé, facendolo poi fucilare
all’esito di un sommario processo dinanzi ad una corte militare, qualcuno dei suoi ministri
e consiglieri (forse quello degli esteri Talleyrand, o quello di polizia Fouché) ebbe ad
esclamare: “è stato peggio di un crimine, è stato un errore”.
Per la verità, il rapimento in territorio straniero, il sommario processo e poi la brutale
fucilazione del giovane ed incolpevole duca fu insieme un crimine ed un errore; un
crimine, perché venne assassinato chi non si era macchiato di alcun delitto ma aveva avuto il solo torto di
essere un oppositore politico, per altro anche abbastanza innocuo; ed un errore, perché da quel momento in
poi nessuno dei tanti principi europei si sentì al sicuro neppure in casa sua, e ne risultò così incentivata la
spinta a quella grande coalizione europea, dagli urali all’atlantico, che, pur tra alterne fortune, avrebbe poi
messo fine all’epopea napoleonica.
Questa combinazione di “crimine” ed “errore” è ciò che mi è venuta in mente nel momento in cui ho riflettuto
sull’ultima manovra economica del nostro Governo, che ha elargito agli italiani l’ennesima dimostrazione di
iniquità e di insipienza, denunziate come tali anche da una parte della sua stessa maggioranza
parlamentare.
Una manovra che è iniqua (e quindi in senso lato criminale), perché il c.d. “contributo di solidarietà” – così
ipocritamente chiamato dai suoi ideatori – colpisce coloro che già dichiarano (per necessità o per
convinzione) tutti i loro redditi, mentre esonera tutti quegli altri che continuano invece a nasconderli,
evadendo ogni forma di imposizione.
Se la prende cioè con chi più dichiara, non già con chi ha maggiori possibilità, con ciò violando
spudoratamente, oltre che il buon senso, anche il dettato costituzionale (art. 53 Cost.), secondo cui tutti
sono tenuti a concorrere alla spesa pubblica in ragione della loro capacità contributiva e secondo criteri di
progressività.
Ed è anche sprovveduta (e quindi erronea) perché, impoverendo ulteriormente il ceto medio già sin troppo
tartassato, lo costringe a ritirarsi dai consumi, ancora di più di quanto non abbia già fatto, con inevitabili
effetti sulla richiesta e quindi anche sulla produzione di beni e servizi, e quindi con un complessivo effetto
recessivo, che aggraverà ulteriormente la situazione economica del Paese.
Qualcosa, tuttavia, va egualmente fatta, e le proposte non mancano, se si vuole usare il buon senso.
Già in occasione del voto parlamentare che ha portato il Governo sull’orlo della crisi, evitata il 14 dicembre
scorso solo dall’irrompere sulla scena parlamentare dei così detti “responsabili”, i liberali avevano proposto
di “fare cassa”, liquidando le partecipazioni finanziarie e la parte non istituzionale del patrimonio immobiliare
dello Stato e degli Enti Locali, con una massiccia operazione di privatizzazioni e di liberalizzazioni che
avrebbe potuto evitare al Paese l’umiliazione di farsi dettare l’agenda politica dal vertice franco-tedesco,
com’è invece avvenuto appena otto mesi dopo.
Se quel consiglio fosse stato ascoltato, al di là della chiacchiera strumentale ed inconcludente con cui si fece
finta di recepirlo nel maldestro tentativo di captare l’unico prezioso voto di cui allora il PLI disponeva alla
Camera, ci sarebbe stato un po’ di tempo per mettere in cascina il fieno che già allora appariva necessario
per passare la brutta stagione che si preannunziava, e forse saremmo giunti un po’ più preparati di fronte
alla crisi di oggi.
Il fatto si è che il problema dei problemi per la finanza pubblica italiana è quello del debito sovrano, che oggi
ammonta ad oltre 1.900 miliardi di €, corrispondenti a circa il 120% del PIL, e sul quale si pagano ogni anno
tra 70 ed 80 miliardi di € di interessi, che solo in parte vengono corrisposti ad investitori italiani; un debito, è
appena il caso di ricordarlo, che è certamente il frutto avvelenato del passato remoto, ma che il passato più
recente ha ulteriormente peggiorato, posto che nel 2008 era soltanto (si fa per dire) del 106%.
Mi sembra assolutamente evidente che, senza una significativa inversione di tendenza l’Italia non potrà
riacquistare credibilità, gli investitori spariranno, la crescita del PIL si arresterà del tutto e, prima o poi, sarà
necessaria l’ennesima manovra a spese dei soliti noti per coprire l’inevitabile deficit di bilancio.
In una fase recessiva come l’attuale, questa inversione non potrà esserci senza una generalizzata
dismissione patrimoniale, come farebbe ogni famiglia di buon senso quando non riuscisse a contrarre
adeguatamente la sua spesa per beni e servizi essenziali.
Tuttavia, un’operazione del genere, fatta nell’emergenza incombente, potrebbe apparire velleitaria e
comunque intempestiva; bisognerà allora ricorrere nell’immediato ad una manovra emergenziale, che però
non può ancora colpire quel ceto medio che ha sin qui onestamente contribuito alla finanza pubblica, spesso
anche oltre ogni ragionevolezza.
Da liberale d’antan, attento alla platea di chi il reddito lo produce e lo investe piuttosto che a quella di chi lo
tesaurizza, non esito a dichiarare che proprio questo sarebbe invece il momento di incidere sui grandi
patrimoni accumulati nel tempo, anche perché essi sono l’unico segno visibile della probabile evasione che
ne sta a monte, quando non corrispondano a redditi capaci di averli generati.
Ed un sacrificio ulteriore potrebbe essere richiesto anche ai patrimoni “scudati”, essendo stato
scandalosamente minimizzato il prelievo a suo tempo richiesto dai vari condoni fiscali con aliquote ridicole
(dal 2,5% del 2001 al 5% del 2009), ben inferiori alla più bassa di quelle applicate ai più modesti
contribuenti; il che, per altro, gioverebbe anche ad esorcizzare definitivamente la tentazione di altri
scandalosi condoni, la cui attrattiva risulterebbe a quel punto definitivamente azzerata.
Né mi convincono i dubbi di chi sostiene che così lo Stato mancherebbe alla parola data in quelle occasioni,
trattandosi di argomento che potrebbe essere utilizzato anche per contestare ogni prelievo straordinario, a
cominciare da quello sui redditi dell’anno in corso, come prevede l’attuale manovra, in palese violazione
dello Statuto del contribuente (art.li 3 e 4 della L. 212-2000).
Cominciando a tassare equamente i grandi patrimoni ed i redditi dolosamente evasi, si potrebbe evitare o
almeno ridurre l’iniquo prelievo tributario sui redditi regolarmente dichiarati, con una complessiva operazione
di equità fiscale che verrebbe salutata con rispetto anche da chi ne risulterebbe colpito, come ha
opportunamente dichiarato Montezemolo Con aliquote adeguate spalmate in un triennio, sarebbe allora possibile abbattere una parte, anche piccola,
del debito pubblico, dando il segnale di una inversione di tendenza, che i mercati potrebbero recepire come
segno di ravvedimento operoso, contestualmente liberando risorse corrispondenti ai minori interessi che lo
Stato è quotidianamente costretto a sborsare.
Quanto al pareggio di bilancio nel triennio, un lieve aumento dell’IVA sui beni non essenziali consentirebbe di
avere il necessario gettito aggiuntivo strutturale immediatamente sostitutivo del prelievo straordinario sui
redditi onestamente dichiarati, le cui aliquote andrebbero anzi ulteriormente alleggerite; e con l’occasione
andrebbe introdotta una qualche detraibilità dell’IVA anche a favore del consumatore finale, facendo così
emergere una massa imponibile oggi occultata.
Ci sarebbe allora il tempo di realizzare il consiglio di tutti quei liberali, dentro e fuori dalla maggioranza
parlamentare, che non si sono mai stancati di invocare una drastica riduzione della spesa statale, con un
complessivo ripensamento della struttura istituzionale dello Stato.
Senza alcuna necessità di ricorrere ad inutili, improbabili e comunque difficili riforme costituzionali, si
potrebbe cominciare proprio con la radicale riforma dell’attuale ordinamento delle province, realizzabile
anche a Costituzione invariata, sostituendo agli attuali consigli provinciali, man mano che andranno a
scadere, le assemblee dei sindaci dei comuni interessati a consorziarsi, invece di promettere l’abolizione di
alcune province, che è operazione praticamente impossibile per l’insorgere delle gelosie localistiche e delle
proteste popolari, che solo una generalizzata tagliola potrebbe sopire; e si potrebbero anche introdurre
massicce dosi di deregolamentazioni, liberando il mercato da lacci e laccioli che oggi ostacolano ogni nuova
intrapresa.
Nel frattempo, si potrebbe mettere in cantiere la vendita del patrimonio pubblico per il quale chiaramente
occorrono tempi non brevi e procedure non semplici, per evitare di inflazionare il mercato e di svendere i
pezzi pregiati ai soliti noti.
E quando le privatizzazioni, nell’arco di due/tre anni, avranno dato i loro frutti, si potrebbe anche pensare di
restituire ai “contribuenti straordinari” colpiti nell’occasione (meglio se su loro espressa loro richiesta) parte
di quel contributo straordinario, non senza la doverosa istruttoria su come quei grandi patrimoni si siano nel
tempo formati, spesso nella disattenzione di chi doveva vedere e provvedere: una restituzione già praticata
nel 1996 per il contributo straordinario per l’Europa, e nulla impedirebbe di ripeterla, trattandosi per
l’appunto di un contributo di solidarietà dedicato ad uno scopo emergenziale ben preciso.
Ripartendo poi i sacrifici sul piano normativo piuttosto che su quello economico, si potrebbe portare subito a
65 anni, come si è fatto dall’oggi al domani nel pubblico impiego, la soglia di pensionamento per le donne nel
settore privato (salvo che per i lavori usuranti), e si potrebbe generalizzare il passaggio dal sistema
retributivo a quello contributivo, utilizzando il conseguente risparmio per ridurre il prelievo previdenziale su
lavoratori ed imprese.
E si potrebbe elevare subito da 15 a 30 dipendenti la soglia stabilita oltre quaranta anni fa (in una situazione
di microimprenditorialità oggi assolutamente inattuale) per accedere alla tutela reale (reintegrazione nel
posto di lavoro) prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che scoraggia qualsiasi ipotesi di sviluppo
aziendale, salvo restando l’ammortizzatore della tutela obbligatoria (indennità una tantum) a carico delle
imprese.
Non sono uno studioso di modelli econometrici, e quindi non mi compete di dare i numeri, ma solo di lanciare
delle idee, anche per evidenziare che ci sono proposte liberali che ben si differenziano dai semplicistici ed
irrealizzabili slogan cavalcati dai nostrani epigoni del tea party americano.
Credo che il combinato disposto delle ipotesi qui formulate, in cui tutto si tiene, farebbe certamente sparire
qualche iniquità di troppo, mentre l’economia del Paese potrebbe subire una scossa antidepressiva tale da
rimettere in moto la crescita della produzione e dei consumi, facendoci uscire dal piano inclinato che ci sta
portando verso il baratro della recessione.
Senza alcun “crimine” e con qualche “errore” in meno!
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