De profundis per il Porcellum?
di Vincenzo Palumbo
18 novembre 2013
Man
mano che si avvicina la data del 3 dicembre, allorché la Corte
Costituzionale affronterà la questione della legittimità
costituzionale (in breve, q. l. c.) della legge 270-2005 (il
c.d. porcellum), va crescendo il chiacchiericcio sulla
improrogabile necessità di riformare quella vergognosa legge
elettorale che per ben tre volte (2006, 2008 e 2013) ha
sottratto ai cittadini italiani il diritto di eleggere
direttamente i propri rappresentanti, come invece dispongono, in
coerenza logica, l’art. 48, secondo comma, della Costituzione
(“Il voto è personale ed eguale, libero e segreto”),
l’art. 56, primo comma (“La Camera dei deputati è eletta a
suffragio universale e diretto”), e l’art. 58, primo comma
(“I senatori sono eletti a suffragio universale e diretto…”),
ed anche l’art. 3 del protocollo addizionale alla CEDU (Diritto
a “libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da
assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla
scelta del corpo legislativo”).
Per la
verità, di tempo per provvedervi il Parlamento ne ha avuto
tanto, come non sono mancate le occasioni per intervenire alla
stessa Corte Costituzionale, che ogni volta se l’è fatte
sfuggire, limitandosi a lanciare severi moniti che il Parlamento
ha puntualmente ignorato; e fra tutte le occasioni mancate non
posso non rammentare, anche per il ruolo che vi ho personalmente
spiegato, quella della proposta referendaria del 2011,
sottoscritta da 1.200.000 elettori, che si è infranta su un
opinabile giudizio di inammissibilità che, se non ci fosse
stato, avrebbe già da tempo dissolto questo macigno che tuttora
condiziona tutta la nostra convivenza politica.
Nel
frattempo i parlamentari, quelli cui incombeva di fare la
riforma elettorale, si sono andati dividendo tra inconcludenti
proposte e scandalizzate proteste, alternando dolorosi scioperi
della fame di alcuni a gustose maialate di altri, e comunque,
nell’un caso come nell’altro, senza mai arrivare a capo di
nulla.
Ciò
che non riuscì ai promotori ed ai sottoscrittori di quel
referendum, e che tuttora non riesce alla politica, potrebbe
invece riuscire ad un gruppo composto da ventisette privati
cittadini, con in testa un avvocato milanese dal nome
prestigioso come quello di Aldo Bozzi, omonimo del suo avo, che
fu tra i principali protagonisti dell’Assemblea Costituente e
della vita parlamentare del novecento.
Si è
trattato di una battaglia pressoché disperata, iniziata nel
dicembre del 2009 e condotta per quasi cinque anni in assoluta
solitudine e nell’assordante silenzio dei media, sfidando tutti
gli infausti precedenti giurisprudenziali che si erano
accumulati negli anni e che avrebbero scoraggiato chiunque
altro.
E
poiché di tutto si va parlando tranne che dell’esistenza di
questo piccolo gruppo di cittadini, mi sembra giusto dedicare
questa mia riflessione proprio alla loro iniziativa, a cui si
deve oggi la reale possibilità di raggiungere un risultato che
nessun altro, in questi ultimi otto anni, è riuscito a
conseguire.
La
storia comincia nel novembre del 2009, quando Aldo Bozzi ed
alcuni suoi colleghi citano in giudizio dinanzi al Tribunale di
Milano la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministro
dell’Interno, lamentando che nelle elezioni del 2006 e del 2008
non avevano potuto esercitare il loro diritto di voto secondo le
prescrizioni costituzionali; temendo di essere defraudati di
questo loro diritto anche nelle elezioni successive, chiedono al
Tribunale di dichiarare non manifestamente infondata la q. l. c.
della legge elettorale del 2005, nella parte in cui si prevede:
a) l’attribuzione alla prima lista (o coalizione) di un
abnorme premio di maggioranza (svincolato dal raggiungimento di
una ragionevole soglia percentuale di voti); b)
l’elezione dei candidati secondo l’ordine precostituito di
lista, senza possibilità di esprimere una o più preferenze;
c) l’indicazione sulla scheda elettorale del capo della
coalizione, con surrettizia espropriazione del potere del Capo
dello Stato di nominare il presidente del consiglio.
Pur
rigettando le eccezioni di inammissibilità formulate delle
amministrazioni convenute, che avevano eccepito difetto di
giurisdizione e carenza di interesse ad agire, sia il Tribunale,
con sentenza dell’aprile 2011, e sia la Corte di Appello, con
sentenza di un anno dopo, avevano nel merito ritenuto che le q.
l. c. proposte fossero manifestamente infondate.
Non
così la prima Sezione Civile della Corte di Cassazione, che, con
un’articolata ordinanza dello scorso mese di maggio, dopo avere
ritenuto che la questione dell’interesse ad agire fosse ormai
coperta dal giudicato formatosi nelle fasi di merito (il che
dovrebbe anche consentire di superare l’aspetto preliminare
dell’incidentalità della questione sollevata), ha in fine deciso
che almeno le prime due questioni di costituzionalità fossero
meritevoli di scrutinio ad opera della Corte Costituzionale per
la loro non manifesta infondatezza.
Purtroppo, leggendo l’ordinanza di rimessione emerge la
sensazione che, almeno nella sua parte dispositiva, laddove cioè
vengono segnalate le questioni oggetto di dubbio costituzionale,
la Cassazione sia stata alquanto sbrigativa, essendosi
soffermata solo su alcune norme delle attuali leggi elettorali,
ed avendone invece trascurate tante altre che andavano anch’esse
contestate.
Tanto
per intenderci, le tre proposte referendarie promosse dal prof.
Passigli del 2011, che sostanzialmente miravano a conseguire il
medesimo obiettivo (e cioè un sistema proporzionale con
preferenze) e che non vennero poi coltivate, si riferivano a ben
22 articoli (ed innumerevoli commi) introdotte dalla legge
270-2005 nelle leggi elettorali di Camera e Senato, mentre le q.
l. c. sollevate dalla Cassazione contestano solo cinque articoli
ed alcuni commi delle medesime leggi.
E
tuttavia occorre sperare che la Corte Costituzionale voglia
superare gli stessi angusti confini dell’impugnazione,
rimediando alle possibili carenze dell’organo rimettente e
portando l’esame anche sulle tante altre norme consequenziali a
quelle direttamente impugnate.
E ciò
proprio per dare un seguito concreto ai tanti dubbi che la
stessa Corte ha più volte incidentalmente espresso in passato, e
che dovrebbero indurla a non sprecare l’occasione che le viene
offerta, evitando di trincerarsi dietro qualche pregiudiziale
formalismo, che potrebbe fermare l’iniziativa sulla soglia
dell’ammissibilità, che sarebbe saggio superare senza esitazioni
(cfr. Federico Sorrentino, di recente su
http://www.confronticostituzionali.eu/?p=731).
Quanto
al merito, se la prima questione, quella dell’illegittimità del
premio di maggioranza senza soglia minima di accesso, a me
sembra assolutamente pacifica, potendo essere agevolmente
risolta con la mera abrogazione delle norme che lo prevedono sia
per la Camera che per il senato, temo invece che non ci siano
speranze quanto alla seconda questione, quella delle liste
bloccate, essendo praticamente impossibile che possano essere
introdotte le preferenze, operazione questa che certamente
supera la potestà additiva della Corte.
E
tuttavia, tutto diventerebbe più semplice e lineare se la Corte,
prendendo spunto dall’ordinanza della Cassazione, ne
approfittasse per sollevare di propria iniziativa e dinanzi a sé
stessa, la q. l. c. dell’intera legge 270-2005, come auspica
parte della dottrina costituzionale che pure nutre dubbi
sull’ammissibilità dei quesiti in quanto tali (cfr. Andrea
Morrone, su
http://www.confronticostituzionali.eu/?p=727),
anche perché ciò consentirebbe di superare tutte le criticità
dell’ordinanza di rimessione in tema sia di ammissibilità
dell’azione, sia di effettiva incidentalità del giudizio di
costituzionalità.
Se il
porcellum fosse dichiarato complessivamente
incostituzionale, risorgerebbe dal limbo in cui si trova la
precedente legge Mattarella, il che la Corte aveva negato fosse
possibile in occasione dell’iniziativa referendaria del 2011, ma
che sarebbe invece assolutamente consequenziale ad una pronunzia
di illegittimità costituzionale, che, dichiarando l’originaria
nullità della legge abrogatrice delle precedenti norme
elettorali, finirebbe per riportare a nuova vita le norme allora
abrogate.
Ne
risulterebbe così conseguito, per diversa via, il medesimo
obiettivo di quei quesiti referendari dichiarati dalla Corte
inammissibili, e che tendevano per l’appunto a riportare in vita
la legge Mattarella ed i relativi collegi elettorali.
Tutto
quindi è possibile, e, se non si possono fare previsioni, si può
almeno formulare l’auspicio che vengano disattesi i pur
autorevoli inviti a lavarsene le mani rivolti in questi giorni
alla Corte (cfr. Roberto D’Alimonte sul Sole del 3 novembre),
quando invece sembra arrivata la volta buona per liberarci
dell’attuale normativa elettorale, che mortifica ogni canone
costituzionale in materia.
Libero
poi il Parlamento, se mai ci riuscirà, a fare quella riforma
della legge elettorale che non è sin qui riuscito ad approvare,
nonostante le tante grida in tal senso.
In tal
caso, “si parva licet componeremagnis”, potremo rendere
omaggio all’iniziativa di quei ventisette volenterosi cittadini
parafrasando quello che Churchill volle rendere ai piloti della
RAF all’indomani della vittoria sulla Luftwaffe nella battaglia
dei cieli d’Inghilterra: “mai così tanti dovranno così tanto
a così pochi”!
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