Dal clientelismo della prima Repubblica all’affarismo della seconda.
Messina, 27.01.2011
In questo scorcio del nuovo anno sto riflettendo sul ruolo e sull’efficacia dell’azione politica del PLI nella c.d. prima Repubblica, con specifico riferimento alla sua presunta incapacità di sottrarsi ed opporsi ai meccanismi assistenziali e clientelari di allora, su quali differenze vi siano rispetto all’attuale clima di generale degrado morale nel quale il Paese sembra nuovamente precipitato, ed infine su quale possa essere l’augurio da formulare ai liberali italiani per il nuovo anno.
Occorre premettere che quel modello assistenzialistico-clientelare, per lo più finalizzato al finanziamento dei partiti, non era stato certo un'invenzione dei liberali, ma della DC, e poi, in competizione con questa, dei socialisti, che avevano deciso di stare al gioco sperando di batterla su un terreno su cui essa invece era imbattibile
Dunque, una gran brutta gara, con un vincitore designato in partenza!
A sua volta il PCI si godeva quella gara dall’esterno, senza troppe proteste, mentre fruiva dei finanziamenti del PCUS, anche attraverso il sistema cooperativistico.
A quel modello rimasero a lungo estranei i liberali, che non lo avevano praticato all’epoca del centrismo, e non lo praticarono poi negli anni 60 e 70, quando erano stabilmente e dappertutto all'opposizione, e neppure quando negli anni successivi si ritrovarono al Governo, salvo che in limitate aree territoriali ed in termini assolutamente non comparabili con quelli generalizzati di oggi
Quando, sul finire degli anni settanta si esaurì l’era del centro-sinistra irreversibile ed il PLI tornò, prima occasionalmente e poi stabilmente, al governo del Paese e, via via, degli enti locali, le prime fasi della collaborazione governativa furono assolutamente positive, specie durante i governi Craxi tra il 1983 ed il 1987, quando i liberali, pur essendo elettoralmente assai minoritari, contribuirono fortemente a fare uscire l’Italia dal periodo dell’inflazione a due cifre, svolgendo anche un’importante ruolo di raccordo tra la DC ed il PSI, questi essendo al contempo alleati al governo e competitori nel Paese.
Se dovessi stabilire una linea di confine per individuare l’inizio della fine per il ruolo positivo del PLI, la collocherei nel novembre del 1987, durante la prima crisi del Governo Goria, quando i liberali ebbero a portata di mano la possibilità di diventare effettivi protagonisti di una nuova fase della politica italiana, e la sprecarono maldestramente sull’altare del ruolo governativo, rinunziando a portare alle naturali conseguenze la loro posizione critica sulla politica economica di quel Governo.
Ed è probabile che in quel frangente una qualche influenza negativa l’abbia avuto il timore di essere risospinti nel deserto dell’opposizione ventennale da cui erano da poco usciti, come anche l’ormai acquisita abitudine all’esercizio del potere ed alle conseguenti pratiche clientelari, che anche i liberali, tardivi e maldestri emuli delle ben più significative performance dei loro colleghi di governo, avevano preso ad utilizzare, pur se in termini assolutamente marginali e mai per scopi personali.
In questo quadro, aggravatosi oltre ogni immaginazione tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90, è piombato il sistema maggioritario ed il conseguente bipolarismo, che doveva risolvere quel problema e che invece l'ha enormemente aggravato.
Nel sistema della c.d. prima Repubblica, i partiti ed i governi si componevano e scomponevano sulla base di principi ideali (io sono liberale, socialista, cattolico popolare, comunista, etc), e ciò in rappresentanza di fasce di elettorato che si sentivano in sintonia con quei principi, dai quali ritenevano potesse discendere in forma mediata ed indiretta anche la tutela dei rispettivi interessi, salvo poi il giudizio sulla coerenza tra principi e comportamenti (da qui, sul piano interno, i mutamenti di leadership, e sul piano esterno le oscillazioni del consenso elettorale).
Nel sistema successivo (quello nel quale ancora ci troviamo) ai partiti rappresentativi sono subentrati i meri contenitori, privi di principi ideali e portatori di interessi, ora tutelati in forma immediata e diretta, ed a tal fine presentatori di megaprogrammi (io propongo questo e quest’altro), per lo più irrealistici ed inattuabili, assemblati senza alcun criterio di compatibilità ed al solo scopo di accalappiare voti.
L'ipotesi di scuola alla base del nuovo sistema era che anche in tal caso gli elettori avrebbero avuto la possibilità di sindacare la coerenza tra proposte e realizzazioni, premiando o punendo la leadership di partito o la coalizione elettorale, e così generando il meccanismo dell’alternanza, ritenuto salvifico sotto il profilo della corretta gestione dei partiti e del buon governo del Paese.
Ma così non è stato, sia perché i programmi proposti erano assolutamente generici ed omnicomprensivi, e quindi irrealizzabili, sia perché gli interessi dei gruppi sociali, nel frattempo coagulatisi all'interno di quei contenitori, hanno finito per prendere il sopravvento sui programmi, stringendo i gruppi dirigenti in un patto di solidarietà, talvolta anche malavitosa, che non si doveva/poteva rompere, e che, se rotto, comportava immediate ritorsione, di varia natura (ne abbiamo avuto significativi esempi).
Sta di fatto che, come già nella competizione tra democristiani e socialisti della c.d. prima Repubblica, nel conflitto tra gli interessi ora in campo, e quindi tra il contenitore di centrodestra e quello di centrosinistra, non c'è partita, perché il primo riesce, sempre e comunque, a coagularne di maggiori, spesso solo immaginati, anche per i timori che il secondo fa ancora nascere in un'opinione pubblica che, per decenni, è vissuta nella paura verso la sinistra in genere ed il comunismo in particolare, paura che, sapientemente sfruttata, persiste ancora oggi nonostante il comunismo, come sistema egemone, sia finito da un pezzo.
Non inganni, in proposito, l'alternanza delle coalizioni nel succedersi delle legislature.
La prima vittoria del centro-sinistra (quella del 1996) fu dovuta esclusivamente al fatto che la Lega aveva abbandonato la coalizione di centro-destra, e si era presentata da sola alle elezioni; la seconda vittoria del c.s. (quella del 2006) non fu nemmeno propriamente tale, posto che quella piccola differenza a suo favore fu dovuta all’assemblaggio di una coalizione eterogenea e contraddittoria, oltre che a piccole defezioni locali avvenute nel centrodestra.
Anche i sondaggi di questi giorni, che pure giustificherebbero ben altre conclusioni, ci dicono che gli interessi consolidati nel centrodestra (uno strano mix, in cui confluiscono il Vaticano e le organizzazioni cattoliche, il localismo egoistico nordista, il variegato mondo dei media, i grandi e medi patrimoni, la classe dirigente della grande industria pubblica e l’imprenditoria assistita, buona parte del lavoro autonomo, ma anche gran parte del sottoproletariato urbano), tutti più o meno accomunati dalla difesa o dall’attesa di qualche privilegio o elargizione, sembrano ancora destinati ad essere maggioritari rispetto a quelli che si riconoscono nel centrosinistra (il pubblico e impiego, i pensionati, le professioni intellettuali più elitarie, i lavoratori più sindacalizzati, parte del sistema cooperativistico, i giovani precari o disoccupati).
I liberali non hanno alcun motivo per gioire di questa scontata prevalenza, giacché la coalizione sociale maggioritaria, man mano che procede verso l’egemonia, tende a dipendere sempre più dall’esercizio del potere, emarginando ed espellendo per prima proprio la componente liberale, che, essendo critica per natura, non accetta di omologarsi.
Ed è politicamente fisiologico che gli interessi, una volta che si siano consolidati attorno all'esercizio del potere, specialmente quando questo potere tende a (e cerca di) divenire assoluto (legibus solutus), facciano di tutto per non perderlo; ne nasce un patto di reciproca solidarietà e di mutua difesa, che sfocia nella complicità attiva od omissiva e che non viene meno neanche nei casi più clamorosi (p.e. quello campano, quello toscano, quello romano, sino all’ultimo di Arcore e dintorni).
Certo, un qualche coagulo di interessi era presente anche nel precedente sistema politico, ma esso risultava alquanto filtrato dalle ideologie, che, essendo generaliste, tendevano a coprire tutto l’arco della società, senza mai eccedere nella tentazione di privilegiarne una sola parte.
E poi, lo stesso esercizio del potere era insieme condiviso e conflittuale, onde si generava una competizione virtuosa anche all’interno dei gruppi dirigenti, così impedendone la cristallizzazione e favorendo il ricambio anche per vie interne; a sua volta, l’opinione pubblica, pur essendo divisa per appartenenze partitiche, non esitava a spostare la sua preferenza verso formazioni contigue, ogni volta che il proprio partito di riferimento mostrava di avere oltrepassato una qualche soglia di tollerabilità.
Tutto ciò, che in definitiva sostanziava il concreto esercizio del controllo democratico tra un’elezione e l’altra, sembra ora sparito.
Si è infatti diffusa la convinzione che l’unico momento topico della democrazia rappresentativa risieda nelle periodiche chiamate alle urne, e che il partito o la coalizione uscita vincente dalle elezioni abbia titolo per esercitare un potere assoluto sino alla successiva scadenza elettorale.
Inoltre, il potere non verrebbe neppure conferito collegialmente ad un gruppo dirigente, quale quello dei partiti democraticamente organizzati, ma addirittura ad un uomo solo, il cui nome ha finito per essere impropriamente inserito sulla scheda di voto, in sostanziale violazione della Costituzione (che attribuisce al Presidente della repubblica la nomina del Presidente del Consiglio) e della stessa legge elettorale (che consente solo di indicare il capo della coalizione nel programma ma non sulla scheda di voto).
Per quanto paradossale possa sembrare, la c.d. elezione diretta del premier non è neppure frutto di una legge ordinaria (piuttosto che costituzionale, come sarebbe necessario), ma addirittura di una decisione sostanzialmente amministrativa, qual è quella dell’Ufficio Elettorale Centrale, chiamato di volta in volta a dirimere le contestazioni circa le modalità di presentazione dei simboli elettorali, in cui i nomi dei candidati risultano impropriamente esposti, così ingenerando gli equivoci che sono ormai pane quotidiano della polemica politica.
Un mandato di tal genere, conferito per tutto l’arco di una legislatura, finisce inevitabilmente per diventare un potere assoluto, che, se pure quinquennale, farà di tutto per essere confermato, stringendo in un vincolo di complicità tutti i suoi sostenitori, impegnati a difendere i loro veri o supposti privilegi, ed a tal fine utilizzando al massimo possibile il controllo sull’opinione pubblica.
Chi si meraviglia che i livelli di corruzione della c.d. seconda Repubblica abbiano raggiunto livelli e dimensioni inimmaginabili nella prima, e chi si interroga su come sia possibile che dall’opinione pubblica non vengano significative reazioni, dovrebbe rammentare che "Il potere corrompe", ma, soprattutto, che "il potere assoluto corrompe in modo assoluto" (Montesquieu, Lord Acton).
Ciò che sto cercando di dire è che il bipolarismo ha esaltato la naturale propensione italica a dividersi per clientele e per fazioni, e che in questo clima è facile che le fazioni diventino vere e proprie cricche o bande, ognuna interessata esclusivamente a distruggere l'altra, e quindi vogliosa di eliminare gli ostacoli frapposti dal sistema (l'equilibrio tra i poteri) e dagli eretici (il caso Fini), sino ai vergognosi killeraggi mediatici a cui abbiamo assistito in questi mesi e che hanno preso il posto dei manganelli d'altri tempi.
Non c’è quindi da meravigliarsi quando constatiamo che il clientelismo, in tutte le sue poliedriche forme collegate al potere (l’affarismo, il nepotismo, il mignottismo) è diventato il sistema normale per vincere un appalto, per conseguire un beneficio fiscale o un aiuto di Stato, per accedere ad un incarico pubblico, per ottenere un lavoro, un contratto. una consulenza o un contributo, e via privilegiando e beneficando, sino all’assurda pratica della legislazione personalizzata, assolutamente inimmaginabile in una democrazia liberale.
Se quindi il grumo degli interessi organizzati è diventata la bussola dell’agire politico, ne soffre prima il mercato (le cui regole vengono piegate per tutelare gli amici degli amici), poi ne soffre la società (che metabolizza il metodo e smette di reagire), quindi ne soffre la politica (che è il luogo della reazione attraverso il dibattito e poi il giudizio elettorale).
Il principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini e delle pari opportunità finisce nel letamaio della fattoria orwelliana, nella quale “tutti gli animali sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri”.
Mentre il leader di turno, quand’anche risultasse assolutamente inadeguato al compito, finisce per diventare quello che era il dittatore del Nicaragua Anastasio Somoza Garcia per il presidente americano Franklin Delano Roosvelt: “È un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana!”, da salvare sempre e comunque, specie quando si sia convinti dell’inesistenza di alternative percorribili.
Ne soffre soprattutto la democrazia liberale, che può vivere solo in un sistema di pesi e contrappesi, insiti in ciascuna articolazione del tessuto sociale, dove ognuno dei protagonisti della vita pubblica, dall’economia alla politica, è continuamente sotto esame, a rischio di critica ed anche di rimozione. E ne soffrono per conseguenza i liberali, che perdono la loro tradizionale funzione critica e gradualmente riformatrice, sino a sparire del tutto, com'è di fatto avvenuto.
Lo sbocco di tutto questo diviene naturale e quasi indolore: la democrazia liberale degrada in democrazia plebiscitaria, pronto l'elettorato italiano, com'è sempre stato non appena se ne sia presentata l’occasione, ad affidarsi ad un uomo solo al comando.
Ecco perché ritengo che la battaglia per modificare l'attuale legge elettorale sia la madre di tutte le battaglie, convinto come sono che il sistema elettorale non è neutro rispetto ai comportamenti elettorali, ma piuttosto li determina.
Da quindici anni, non votiamo più a favore di qualcuno ma contro qualcun altro (il voto contro); e non votiamo più per chi riteniamo possa degnamente rappresentarci, ma piuttosto per chi sia in grado di difendere i nostri interessi (il voto utile).
E, se non accettiamo di percorrere questo binario obbligato, siamo costretti ad astenerci, così allontanando dalla partecipazione democratica la parte più libera e critica dell'opinione pubblica.
L'uno e l'altro voto (quello "contro" e quello "utile") sono l'anticamera della democrazia plebiscitaria, dalla quale sino ad ora ci ha salvato solo l'impianto equilibrato della nostra Costituzione; che tuttavia, se ha resistito all'ultimo assalto (quello naufragato nel referendum del 2006), non è detto che possa resistere agli assalti successivi, propiziati da una legge elettorale che assegna il 55% del Parlamento non già alla maggioranza del corpo elettorale, ma alla più forte (direi addirittura la meno debole) delle minoranze.
Se quella del 1953, che i liberali subirono malvolentieri e che qualcuno di loro (Corbino, Paratore) aspramente osteggiò, venne definita legge-truffa, perché assegnava il 65% dei seggi (e soltanto per la camera dei Deputati, ma non per il Senato) a chi avesse ottenuto almeno il 50 % +1 dei voti validi, quella attuale è di gran lunga peggiore, perché assegna il 55% dei seggi a chi in ipotesi raggiunga percentuali ben minori: nel caso di tre coalizioni, potrebbe accadere che il premio tocchi ad una coalizione o ad un partito intorno al 30%, ed anche meno nel caso di quattro coalizioni, sino al limite del 25% a suo tempo introdotto dalla legge Acerbo del 1923, che permise a Mussolini di blindare il suo percorso verso l'instaurazione della dittatura.
Ciò che più preoccupa, in questo momento, è che i liberali veri, e non i sedicenti tali degli ultimi anni, possano non comprendere sino in fondo (come sin qui solo pochi hanno compreso) quanto politicamente mortale sia il rischio che stiamo correndo.
Chi, con questo sistema, sogna in buona fede di andare in Inghilterra o negli USA, rischia invece di ritrovarsi in Venezuela!
E quindi, se c'è un augurio che mi sento di fare per il nuovo anno a tutti gli italiani, ed in particolare ai liberali, è che il 2011 possa regalarci una nuova legge elettorale, che, mettendo fine al premio di maggioranza, al bipolarismo forzoso ed al Parlamento dei nominati, ripristini una vera democrazia rappresentativa e consenta ai cittadini di tornare ad eleggere un Parlamento di uomini realmente liberi, unico ostacolo per bloccare la deriva plebiscitaria in atto nel Paese.
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