
A
cosa è veramente servita l’autonomia in Sicilia
di Salvatore Butera
ECONOMIA SICILIANA
Lo spessore quantitativo e qualitativo del settore terziario che
la politica ha alimentato e
distorto rappresenta una zavorra che opprime lo sviluppo
dell’economia siciliana.
1. Com’è fatta l’economia siciliana è presto detto,
quanto meno per i due settori direttamente produttivi.
Un’agricoltura profondamente modificata rispetto al vecchio,
stravecchio modello latifondistico cerealicolo e granario, ricca
di produzioni orticole e di frutta, spesso di nicchia, ma in
grave crisi di produttività e di sbocchi di mercato. C’è un
eccesso di manodopera nell’agricoltura siciliana con oltre l’8%
degli occupati totali. Nella media italiana (che quindi
ricomprende anche la Sicilia) gli addetti all’agricoltura sono
appena il 3,7% del totale. Si pensi a regioni agricole ad alta
produttività come Emilia e Veneto. Quanto all’industria, svanito
per sempre il sogno della grande industrializzazione degli anni
’50, è rimasto ben poco anche se circa un terzo della capacità
di raffinazione di oli grezzi di petrolio è rimasto in Sicilia
fra Siracusa, Gela e Milazzo.
Certo si è creato nel tempo un tessuto di piccole e piccolissime
imprese che le recenti ricerche di RES hanno dimostrato come
sovente orientate all’innovazione ma anche all’esportazione. Ma
si tratta di un tessuto molto fragile che riproduce nei difetti,
in scala, miniaturizzato, l’assai maggiore sistema
manifatturiero nazionale di recente analizzato dal Governatore
Visco all’assemblea della Banca d’Italia: dimensioni ridotte,
alta dipendenza dal credito bancario, scarsa propensione al
ricorso ad altre forme di finanziamento. E come si sa il credito
bancario per il momento latita.
Inutile soggiungere a questo punto che il PIL per abitante è in
quasi tutte le regioni del Sud circa la metà di quello della
Lombardia, mantenendo in tal modo solo statisticamente intatta
la famigerata questione meridionale che invece è stata
sostituita dalla questione settentrionale.
E veniamo al grosso, al famigerato terziario meridionale ma
soprattutto siciliano che assorbe nell’Isola il 75% degli
addetti (68% nella media nazionale) e produce l’82% del valore
aggiunto, quattro punti in più del Mezzogiorno e quasi dieci in
più della media nazionale. Di questo valore abnorme il 32% è il
prodotto della pubblica amministrazione vale a dire dalla massa
degli impiegati e pensionati della Regione e degli enti locali i
quali a partire dal dopoguerra hanno via via accolto crescenti
masse di addetti del tutto scollegati da un concetto di
produttività e del tutto ignari e alieni da possibili confronti
competitivi o di mercato.
E’ questa enorme massa che sostanzialmente opprime la Sicilia e
impedisce di fatto il suo sviluppo, anche se consente ovviamente
a masse di cittadini di condurre e mantenere un tenore di vita
quanto meno sufficiente ai bisogni; talvolta molto superiore se
si considera che la alta burocrazia regionale da decenni non è
più assunta in base a pubblici concorsi bensì mediante private
contrattazioni del tutto opache e di cui nulla viene spiegato
alla pubblica opinione.
2. Dunque un’economia terziarizzata in modo del tutto
anomalo sopratutto dal punto di vista quantitativo, mentre nulla
è dato sapere dal punto di vista qualitativo al di là di
sporadiche notizie di periodici spostamenti all’interno della
amministrazione e che sembrano rispondere più ad esigenze
politiche che a quelle funzionali. Accenniamo solo di sfuggita
al tema per certi versi tragico dei precari la cui massa
equivale ad una vera e propria forma di smisurato ammortizzatore
sociale. E c’è chi parla oggi di reddito di cittadinanza senza
rendersi conto che il siciliano che riceve un sussidio mensile
anche non elevato se ne riterrà per sempre pago, ben lungi dal
considerare la sua situazione come provvisoria e si guarderà
bene dal cercare altri sbocchi lavorativi. Dopo queste
esperienze e queste consapevolezze sul carattere dei nostri
conterranei, che purtroppo ben conosciamo, bisogna ammettere che
ci vuole un bel coraggio!
Ora va ricordato che questa situazione si è venuta a creare
nonostante la politica poliennale dell’intervento straordinario
nel Mezzogiorno (di cui la Sicilia ha finito per fruire in
misura proporzionalmente minore al suo peso territoriale e
demografico, ma per spiegare questo ci vuole un altro articolo e
forse non basta); ma nonostante anche la autonomia regionale
ottenuta dalla Sicilia nei tardi anni Quaranta del secolo scorso
e i cui effetti detti molto in breve sono quelli sopradescritti.
L’autonomia regionale non solo non è servita a nulla ma ha
creato un sistema soffocante di impiego pubblico. Il sogno di
Sturzo, di Ambrosini, di Alessi, di Aldisio è finito in un
incubo per la Sicilia e i siciliani. E dire che Sturzo pochi
mesi prima di morire (agosto 1959) ad appena dodici anni dalla
prima applicazione dello statuto se ne era accorto.
In un “Appello ai siciliani” del marzo 1959, dapprima Egli
ricorda con straordinaria lucidità che fin dagli albori
dell’autonomia l’opinione pubblica italiana ha guardato alla
Sicilia come a “una terra estraneata da tenersi sotto
osservazione.” Alla Regione, continua, hanno preso l’aria di
ricopiare il Governo e il Parlamento nazionali attribuendosi
compensi pari a quelli di deputati e senatori a Roma. E
sopravvenne poi la partitocrazia che ha infettato la nazione. E
conclude mestamente: la Sicilia ne fu sopraffatta. Naturalmente
era ancora un tempo di grandi speranze, nonostante le amare
riflessioni sturziane, era in vita il famigerato governo Milazzo
cui Sturzo era stato ed era, diversamente da quanto pretende una
certa vulgata, nettamente contrario. Ma resta il fatto che in
un’epoca che oggi appare quasi mitica, il principale ispiratore
dell’autogoverno regionale, avesse intuito la strada sbagliata
su cui ci si stava avviando.
3. Quella strada purtroppo è stata percorsa tutta ma non
è giunta ancora al termine. La verità l’ha detta di recente un
costituzionalista siciliano, Michele Ainis. Non solo le province
vanno abolite, non solo le regioni a statuto speciale ma anche
tutte le regioni, anche le ordinarie che hanno dato in questi
anni al Nord come al Sud prove di corruzione e inefficienza
largamente sufficienti a condannare tutto il sistema delle
autonomie del paese, ad eccezione beninteso di quelle comunali.
Si è venuta a frapporre fra lo Stato Centrale e le popolazioni
un’enorme intercapedine di leggi inutili e dannose, speso
doppioni di norme centrali, il tutto gestito da classi politiche
locali assai peggiori, se possibile, di quelle nazionali. Un
fallimento totale dell’autonomia regionale cui già nel ’59 non
credeva più neanche il suo ideatore Luigi Sturzo e cui oggi non
crede più oltre la metà degli elettori siciliani, esattamente il
53%, che nell’ottobre 2012 non sono andati nemmeno a votare alle
ultime elezioni regionali.
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