Vittorio
Ribaudo:
se una vita da genio non basta.
Il pittore nativo di Palermo è stato
l’unico ad utilizzare materiali e tecniche che hanno fatto la
storia: dalle sezioni dei tronchi raffiguranti la Divina
Commedia alla Creazione sul vetro di Murano, si tratta di
intuizioni mai replicate da altri. Oggi, in serie condizioni di
salute, ha visto rifiutata la richiesta di aiuto per continuare
a produrre arte. Una visita alla sua casa-atelier, tra scorci di
meraviglia e un amaro racconto.
Un fiore nel deserto. Alle porte di Augusta (SR), tra campagne
così frustate dal sole da apparire come una infinita distesa di
sabbia e rocce, esiste un luogo quasi etereo, magicamente
svincolato dall’aridità paesaggistica e cromatica circostante.
Una vera e propria officina di meraviglie, la cui eco inizia ad
investire viaggiatori e curiosi ben prima della sua apparizione.
Per arrivarci, non bastano gli strumenti convenzionali a cui
siamo abituati. Bisogna, piuttosto, affidarsi ad una sorta di
aura, di scia, tanto ingombrante da dipanare il suo fascino fin
dai vicoli finemente adornati di Brucoli, al loro profumo di
mare e di storia. Ai sussurri ammirati della gente che, tra un
ricordo e un aneddoto, ti indica pian piano la via. Perché la
casa dell’artista Vittorio Ribaudo non è appena un presidio di
cultura nella periferia isolana: è, soprattutto, un laboratorio
di creatività con pochi eguali, che ha dato vita, a volte in
maniera purtroppo silenziosa, a capolavori che hanno
rivoluzionato l’arte del ‘900. Quando alcuni cari amici comuni
mi hanno invitato calorosamente a visitare l’atelier sui generis
del Maestro nativo di Palermo, immaginavo di trovarvi frammenti
di bellezza dal valore inestimabile. Non immaginavo, tuttavia,
che mi sarei trovato dinanzi ad intuizioni così sorprendenti da
essere pressoché irripetibili. E alla amara rivelazione che
tutto questo rischia di andare irrimediabilmente perduto.
È proprio lui ad accogliere la nostra ristretta comitiva
sull’uscio di casa. Alle sue spalle, in attesa di accomodarci,
già fanno mostra di sé cornici, cataloghi, cavalletti. Un veloce
scambio di cordialità, e subito quegli occhi schivi si immergono
in chissà quale pensiero. Provo a scrutarli, ma qualcosa di
inspiegabilmente profondo continua a sfuggirmi. Sembra
rabbuiato, per certi versi rassegnato, mentre scorre con mano
sapiente alcuni book contenenti opere di vario genere. Ho appena
fatto in tempo ad abituarmi alla pungente fragranza dei colori e
dei pennelli a riposo, a sentirla sottopelle come un piacevole
pizzico, e già la mia attenzione viene rapita dall’intensità di
alcune illustrazioni, contenute in un libricino: «Sono le storie
della Genesi – si affretta a rivelare Ribaudo, con la dolcezza
di chi fa un tuffo tra le proprie memorie felici -.
Ad ogni fase
della creazione è associata un’immagine e una poesia dell’amico
poeta Antonino Magrì». Le scorro avidamente. Tra le tante
immagini che progressivamente fanno capolino sul grande tavolo
attorno al quale siamo tutti, religiosamente, radunati, diversi
sono anche i volti di Cristo. Raramente, osservando
raffigurazioni di carattere sacro, mi ero imbattuto in una tale
vividezza di sguardi, di gesti, di impressioni.
«Sentiti libero di guardare in giro», mi viene detto. Non me lo
faccio ripetere due volte. Lascio alle spalle i miei compagni:
pochi passi, e lo stupore diventa ancora maggiore. A colpirmi
sono alcune opere realizzate sul legno, nonostante si trovino
appese sulla parete più buia del piano. Forse, semplicemente,
perché capaci di emanare luce propria. Mi soffermo con curiosità
sulla loro forma unica, tanto irregolare quanto inconsciamente
logica, sulla rappresentazione massiccia e al tempo stesso
leggiadra dei corpi e dei loro sforzi. C’è qualcosa di familiare
nel loro andamento, nel loro protendersi verso un altrove, nel
loro ammiccare a me, attonito spettatore. In una di queste, la
chiave del mistero: un uomo in tunica rossa, affiancato da un
sodale dai tratti severi ma paterni. «Quelle che vedi – mi
spiega il Maestro avvicinandosi – sono scene tratte dalla serie
della Divina Commedia. Si tratta di esemplari unici, realizzati
soltanto da me su supporti unici». Le vicende di Dante
raccontate attraverso sezioni di tronco accuratamente
selezionate per potenziarne l’espressività. La sensazione
diventa consapevolezza: Vittorio Ribaudo non ha soltanto
inventato uno storytelling alternativo, moderno e sperimentale
del capolavoro dantesco, adatto persino al pubblico più digiuno
di tematiche letterarie – «un po’ come gli affreschi delle
chiese medievali» puntualizza – ma è stato il primo a
strutturarlo attraverso un mezzo pittorico inedito. È stato il
primo a crederci, a realizzarlo, a perfezionarlo. Ogni
nervatura, infatti, partecipa al racconto: si fondono con la
scena al punto tale da sembrare esse stesse frutto della
creazione artistica. Talvolta nella forma di increspatura
dell’acqua, altre volte come reticolato su cui si snoda l’intero
paesaggio. Linee magnetiche che attraggono i personaggi e li
subordinano al loro volere. «La scelta della sezione adeguata
all’esigenza creativa che di volta in volta si presenta è lunga
e faticosa. Richiede ispirazione e meticolosità». Il connubio
perfetto, insomma, per smussare la secolare dialettica tra
cultura e natura. Se il legno, infatti, è il materiale
prediletto, mille altri sono quelli esplorati da Ribaudo: pelle,
sughero, marmo, perfino il vetro di Murano, capace di restituire
colori e forme dal carattere onirico. Materiali che solo Ribaudo
ha avuto l’ardire e l’abilità di sperimentare. Tecniche che solo
attraverso lui, oggi, possono essere apprese.
Distolgo gli occhi dalle peripezie dantesche. Nel tornare al
tavolo vicino all’ingresso, scorci meravigliosi di Sicilia mi
costringono a rallentare l’andatura. Coste scintillanti con
l’Etna a custodirne le spalle, zone rurali dal sapore antico, di
ruderi e di aratri, lavoratori intenti a svolgere la loro
massacrante mansione, sublimata dalla luce che li avvolge.
«Ricordo di aver visto paesaggi così carichi di significato –
dico – solo grazie a Francesco Lojacono». La risposta mi lascia
di sasso: «Lojacono è stato il mio maestro. Ho imparato da lui,
osservandolo con il desiderio di apprendere. Queste sono le
tracce che ha lasciato in me». Ed immediatamente realizzo che è
questa la perfetta chiusura del cerchio: sono testimone
dell’accadere e del rinnovarsi della storia.
Siamo pronti ad accomiatarci. Ma un fulmine a ciel sereno si fa
spazio tra le considerazioni finali: «Cosa ne sarà di tutto
questo?». All’interrogativo di Ribaudo segue qualche istante di
silenzio. Per un attimo penso si stia rivolgendo a me. Poi
capisco che la domanda è per sé stesso. «Ho 84 anni e sono
seriamente malato. Ho ricevuto molte promesse. Tutte vuote.
Nessuno ha mai rispettato la parola data». Ci spiega che il
riferimento è alla richiesta di un vitalizio che possa
consentirgli di trascorrere più serenamente i suoi ultimi anni e
di continuare a spendersi per l’arte, come ha fatto per tutta la
vita. La risposta da chi di dovere, tuttavia, è stata lapidaria:
“diniego per mancanza di chiara fama”. E pure la richiesta di
far diventare la sua dimora quantomeno una casa museo è ancora
sospesa nell’incertezza. «A cosa è servito tutto quello che ho
realizzato? L’impegno che ho messo nell’inventare un modo
inedito di fare arte? Aspettano forse che io muoia?». La
conclusione è spezzata dalla delusione e da un leggero tremore
della voce.
La giornata assume una sfumatura diversa. E mentre mi avvio
verso la mia auto, mi chiedo come si possa affermare che il
protagonista di questa vicenda non sia abbastanza celebre da
meritare un sollievo alla propria condizione, quando i suoi
dipinti campeggiano in giro per il mondo (da New York a Tokyo,
passando per Stoccolma), quando il suo passaggio ha reso
numerose località mete di interesse culturale ed artistico.
Anche in questo caso fatico a darmi una risposta. Se non quella
che alla prepotenza, all’indifferenza e all’ottusità non c’è mai
fine. E provo a farmi forte di una lezione che forse non avrei
voluto apprendere: dinanzi ad alcune delle più geniali opere di
ingegno e di cuore dell’arte novecentesca, c’è chi ha il
coraggio di calpestare questo raro fiore. Persino nel deserto.
21/08/2021 |