Olivetti, l’uomo che sognava il mondo e lo cambiava
UN VIAGGIO SUI SEDILI STRETTI DELLA FIAT 600 MENTRE L’AZIENDA
VOLA NEGLI USA LE RESPONSABILITÀ DI UN’IMPRESA MAI TENTATA E LA
POESIA DELLA LETTERA 22 RITRATTO DIRETTO E INEDITO DI UN
ITALIANO RARO. E ATTUALISSIMO
di
Furio Colombo
(Il Fatto Quotidiano – sabato 02 novembre ’13, pag. 12)
Milano,
un venerdì sera di giugno, diciamo le
otto, c'è la luce di un'estate precoce, una ventata di caldo
inaspettata sul piccolo piazzale deserto. Ho fatto tardi. Sul
lato del parcheggio non ci sono più auto, tranne la mia
Seicento. Da quel punto si vede la strada, che è quasi un vicolo
a senso unico. E lì c'è Adriano Olivetti, con un borsone
accanto. Guarda la strada, in attesa. Si volta, mi dice: “Ho
perso l'autista”. Io avevo già chiuso la porta del palazzo degli
uffici (la Olivetti aveva la sua sede milanese in via Clerici) e
naturalmente non avevo le chiavi. Intorno, a quel tempo, non
c'erano né bar né telefoni. Con un po’ di imbarazzo mi sono
offerto di accompagnarlo.ANDAVA ALLA STAZIONE
CENTRALE,
il treno fra un'ora. Anche lui era
un po’ imbarazzato, un suo tratto normale all'inizio
di ogni conversazione, persino se ti chiamava
lui. Ha afferrato il borsone prima che potessi
aiutarlo e ha faticato un poco a sistemarlo
sul sedile posteriore. Poi si è seduto davanti, ma
né lui né io siamo riusciti a cambiare la posizione
un po’ scomoda del sedile, uno spazio stretto. Non c'era traffico e avremo avuto sì e no
un quarto d'ora per una conversazione prima del
treno. Ma quella conversazione ha cambiato
molte cose nella mia vita. Ecco come è andata.
Adriano Olivetti: “Lei sa che abbiamo comprato
la Underwood”. Ho detto “Sì, ma non avevano
detto tutti che era una azienda colabrodo, molti
debiti, troppo personale e nessun progetto?”.
Adriano Olivetti: “È la più
grande fabbrica di macchine
per scrivere nel mondo.
Ventimila dipendenti, 128
filiali. E adesso è una nostra
fabbrica”. L'Ingegner Adriano
diceva sempre “macchine
per scrivere”, non “da scrivere”.
Non era autoritario, ma su questo
ti correggeva subito. “Ingegnere,
se devo credere ai film, quelle officine
non assomiglieranno molto alle
fabbriche Olivetti”. L'Ing. Adrianonon era grasso, però stava stretto in
quella Seicento con il sedile messo
male. Ma questo non diminuiva il
suo entusiasmo. Adriano Olivetti: “Si rende conto?
128 filiali vuol dire punti di vendita
in tutta l'America. Gli uffici sono a
New York, al numero 1 della Park
Avenue. Le fabbriche sono ad Hartford, nel
Connecticut. Bisognerà fare la spola. Per fortuna
ci sono ottime autostrade. E poi bisognerà
visitare continuamente tutte le filiali. Devono
diventare nuove, capisce? Come il nostro negozio
di New York”. Sapevo del negozio per la
celebre fotografia della Lettera 22 montata su
una colonnina di metallo nero, sul marciapiede
della Quinta Avenue, all'altezza della Cinquantaseiesima
Strada: i passanti facevano la coda
per provare a scrivere su un foglio bianco già
inserito.
DI SOLITO MI CONTAGIAVA
il suo entusiasmo,
che si accendeva subito se si parlava
delle nuove fabbriche, del come rendere silenziose
le officine, della biblioteca (che era diven11
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tata una leggenda italiana), della scuola dei piccoli,
del progetto di calcolatore elettronico (aveva
già un nome: Elea) a cui lavorava il mitico
Ing. Chou, un giovane cinese di immenso talento.
Ma adesso ero disorientato.
Passione ed entusiasmo li conoscevo fin dal periodo
trascorso a Ivrea, prima in fabbrica (alle
presse e alla catena di montaggio) poi nell'Ufficio
di selezione del Personale (guidato allora da
un ex ufficiale di Marina colto e avventuroso,
Nicola Tufarelli) dove Paolo Volponi mi ha aiutato
a capire che, nella visione dell'Ing. Adriano,
la direzione del personale – e dunque anche
la selezione, in una fabbrica che prevedeva solo
assunzioni – contava quanto la direzione finanziaria.
E poi a Milano, in via Clerici, dove ai
piani di sopra c'erano Franco Fortini, Giovanni
Giudici, Giorgio Soavi, Franco Momigliano,
Cesare Musatti, Renzo Zorzi. E con me, al secondo
piano, c'era Ottiero Ottieri, lo scrittore
che ha trasformato in romanzo la fabbrica di
Pozzuoli (Donnarumma all'assalto) e ha dato
un senso letterario all'epoca Olivetti, mentre
Franco Ferrarotti (anche lui sul posto) ne aveva
dato la rappresentazione sociologica e Musatti
quella psicanalitica.
INTANTO GLI ARCHITETTI,
da Sottsass a
Bellini, da Pollini a Vittoria, davano forma alla
bellezza che Olivetti cercava nella fabbrica e
nel lavoro. Passione ed entusiasmo, ho appena
detto, ma niente esuberanza estroversa. Conoscevo
bene il piccolo, ripetuto colpo di tosse di
imbarazzo, all'inizio delle conversazioni, anche
se poi si facevano intense. Quelle conversazioni
tendevano a dilatarsi, come un sommario di cose
da fare, da ripensare, da disegnare. Mai nel
tempo, perché l'ing. Adriano non amava i monologhi
e aveva in mente una sua precisa scansione
delle cose da fare (una volta si è accorto
dopo giorni di avere l'orologio da polso fermo,
senza mancare mai il momento per cominciare
e per finire una cosa).
Ma noi eravamo scomodi, lui un po' schiacciato
su una Seicento, andando verso la Stazione
Centrale di Milano, e le notizie sulla Underwood
e sulla Olivetti in America erano importanti
e interessanti. Ma in che senso mi riguardavano?
Io stavo bene tra Ivrea e Milano, con un
quadro di Leger alle spalle (quasi tutta la collezione
d'arte contemporanea di Olivetti era negli
uffici e nell'atrio delle officine) e Ottiero per discutere
il lavoro (lo strano lavoro di assumere
sempre senza licenziare mai) nella stanza accanto.
C'erano molte filiali Olivetti nel mondo,
da Londra a Tokyo, ma non erano mai entrate
nei nostri discorsi.
Adriano Olivetti: “Poi c'è un'altra cosa. I
campus universitari americani. Lei sa che ogni
primavera ci sono le interviste delle grandi aziende
per selezionare i migliori. Noi non cerchiamo
ingegneri. Gli ingegneri più bravi li troviamo
a Torino e a Milano. Noi cerchiamo giovani
laureati in Matematica, Letteratura, Filosofia,
Scienze umanistiche, come lei ha fatto finora
in Italia. Per il nuovo calcolatore dobbiamo
mettere insieme nazionalità, formazioni, culture
diverse. Posso dire al consiglio di amministrazione
che lei accetta?”.
L'esperienza era quella di un circo, lasciare la
presa e rimbalzare su una rete grande, ma in un
altrove totale, un bel po’ prima dei trent'anni.
L'IDEA DELL'ING. ADRIANO
era questa:
non più di cinque italiani nel corpo immenso
dell'azienda americana appena diventata Olivetti
(Olivetti-Underwood). A me toccava la responsabilità
del personale. L'ho già detto, ero
disorientato. Ma non mi rendevo conto del vero
pericolo che stavo correndo: credere che il
mondo del lavoro, i suoi manager, i suoi protagonisti,
fosse questo. Che fosse tutto così.
Una domanda già allora era inevitabile: se la
bellezza e la cultura sono così importanti per il
lavoro e per la vita di uomini e donne che lavorano,
se fare le cose inventando ogni volta i
modi e le forme, chiamando a raccolta persone
capaci di farlo e rendendo eccezionale, e citato,
ed esposto nei musei, anche un piccolo prodotto
come la macchina per scrivere portatile, guadagnando
attenzione e prestigio e successo, perché
gli altri non se ne sono accorti? Perché hanno
considerato Adriano Olivetti un estraneo, un
disturbatore, un nemico? Certo “Non è uno di
noi”, era la persuasione che era quasi universalmente
condivisa nell'imprenditoria italiana,
che ha una lunga storia di grettezza e favori,
con una forte inclinazione a chiedere e a non
dare (sia alle persone sia al proprio Paese). E
che comunque non ha mai voluto Olivetti in
Confindustria.
SPOSTANDOMI PER IL MONDO,
nelle
tappe di quella incredibile avventura, mi sono
reso conto che in altri Paesi l’immagine di Adriano
Olivetti appariva meno remota e inspiegabile.
In America, per esempio, c'è una grande
tradizione di filantropia, che vuol dire donare in
grande (ospedali, scuole, università) come forma
di tributo al proprio successo e al proprio
nome. E mi sono reso conto, frequentandolo
molti anni più tardi per un altro lavoro, che la
persona più vicina e più confrontabile ad Adriano
Olivetti (il rispetto alle persone, l'attenzione
al rapporto fra arte, bellezza, impresa, la
decisione di fondare una università dedicata alla
ricerca scientifica, col suo nome) nell'universo
del capitalismo americano, era David Rockefeller,
un uomo mite, colto e intelligente che non
ha mai assomigliato alle feroci caricature che
gli sono state dedicate. Ma questa somiglianza,
più della tensione ostile di una tribù arretrata
del capitalismo italiano, mi serve per chiarire.
Adriano Olivetti non era un filantropo, non correggeva
benevolmente il mondo, lo sognava, lo
costruiva, lo cambiava e tendeva a non fermarsi
perché la differenza fra il progetto e il mondo
restava grandissima: e lui, realistico, concreto,
proprio mentre era immerso nel sogno, sapeva
la differenza e non si dava pace. Eppure aveva
un passo apparentemente tranquillo, senza gesticolazioni
e senza concitazioni, una voglia di
spiegare calorosa ma chiara, come a scuola. Si
rendeva conto del buon senso delle obiezioni,
che ascoltava e annotava.
“PERCHÉ COSÌ PRESTO?”,
gli ho chiesto
una volta mentre l'uomo con gli occhi azzurri e
la cravatta bianca mi aspettava, senza carte sul
tavolo, alle 6: 15 del mattino per leggere dal
pacco di giudizi (scritti da me, rivisti da Ottiero)
sui giovani neolaureati che avevamo “intervistato”,
e che proponevamo di assumere). Sorrideva
in modo mite, non da manager, con un
accenno di scusa: “Perché io mi sveglio prestissimo.
Mi sveglio alle quattro”. “Ingegnere, ma
che cosa fa dalle quattro?”. Mi guarda bene
(non perdeva mai gli occhi del suo interlocutore).
“Progetto”, è stata la risposta. E tu sapevi e
constatavi ogni giorno che era vera. Sentirsi
parte di quel progetto creava un lieve, continuo
entusiasmo che rendeva diverso ogni giorno di
lavoro. Per i corridoi (immaginate lo scenario
delle Alpi, sul fondo), andavano e venivano il
giovane filosofo Lunardi (che Umberto Eco cita
ancora come una guida intelligente nell'impegno
filosofico) il giovane filosofo Franco Tatò,
il giovane esperto di Asia e di lingue asiatiche
Tiziano Terzani.
Lì vicino c'era l'ufficio di Franco Ferrarotti, uno
dei fondatori della Sociologia italiana, che faceva
da ponte fra Adriano Olivetti imprenditore
e Adriano Olivetti editore (Le edizioni di Comunità,
una finestra sul mondo della cultura
non italiana ma anche il marchio dei libri di Olivetti
sulla sua visione della Comunità, che stava
per portare in politica), ed era impossibile
non fermarsi e non sentirlo nella sua appassionata
irruenza (chi di noi, presenti allora, ha dimenticato
il suo discorso appassionato e piangente
davanti agli operai e alla fabbrica il giorno
della morte dell'Ing. Adriano?). Ma nell'interruzione
del pranzo cercavo di sedermi al tavolo
di Volponi. E poi, nel periodo trascorso
negli uffici di via Clerici a Milano, in cerca di
Franco Fortini o del poeta Giovanni Giudici,
mentre Ottiero Ottieri mi dava da leggere (“per
domani”) pacchi di pagine del suo romanzodiario
La Linea Gotica.
E gli intervalli più lievi
erano con Giorgio Soavi, scrittore, poeta, jazzista,
inventore dell’Agenda Olivetti.
Però la domanda resta. Qual è il filo che lega
ragione, bellezza e intelligenza (nel senso creativo)
alla fabbrica. E perché ha funzionato (gli
scrittori lavorano in fabbrica, gli architetti la disegnano,
i poeti trovano le parole per le frasi
pubblicitarie, i designer portano i manifesti, gli
operai si sentono parte di questa prima, operosa
comunità in cui le vendite aumentano, e aumentano
anche i salari, gli stipendi, i risparmi (aumentano
prima che tu te lo aspetti o lo chieda),
e aumentano gli aiuti agli operai ex contadini,
per persuaderli a non vedere la cascina e la terra?
La risposta, ovvero il senso di tutto ciò che
è stato Adriano Olivetti, non finisce qui, comincia
qui.COMINCIA DAL RAPPORTO
fra fabbrica e
cultura, dalla cultura intesa come servizio di
ciascuno che sa o ha di più, alla vita degli altri,
che comunque ricambiano. Comincia da una visione
che non si spiega se si riduce a bontà o
gentilezza o generosità o mecenatismo. La parola
è uguaglianza, un sogno di uguaglianza
fondata sulla dignità e sulla fervida immaginazione
che le vite si vivono in modo diverso, con
talenti e bravure diverse, ma con lo stesso grado
di valore, legate da un intenso dare e avere. C'è
in tutto questo una religiosità implicita, ebraica
e cristiana, che crede nel dono reciproco. E sorprendentemente
accenna a una sequenza di
reincarnazioni, di nuove vite, da operaio a poeta,
da scrittore a operaio, da contadino o pescatore
che sta in fabbrica senza rinunciare alla terra
e al mare. Così è stato, vi assicuro, in questo
tempo e in questo Paese.12
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