Un mito a cui i siciliani
non hanno mai creduto: così la letteratura ha sgretolato il mito
di Garibaldi.
di Jashua Nicolosi.
La revisione storica sulla spedizione dei
Mille oggi sembra un dato acquisito. Ma all’indomani dell’Unità,
e per gran parte del Novecento, contro l’esaltazione della
parabola garibaldina furono subito i siciliani a far sentire la
propria voce. Da Verga a Sciascia, passando per Pirandello, ecco
come in un secolo la leggenda è stata smontata.
Esiste un momento, nella vita di ogni curioso lettore che non si
accontenta delle verità di comodo, in cui la storia – quella
tramandata da un certo genere di scuola in maniera quasi
dogmatica – mostra il suo lato oscuro. Le sue falle, le sue
contraddizioni, le sue chirurgiche omissioni. Cresciute con miti
imperituri, epopee e certezze granitiche, sempre più spesso le
generazioni contemporanee hanno imparato che dietro le quinte
del passato, dei grandi eventi collettivi e delle imprese
individuali, si cela una complessità con cui, talvolta, è
difficile fare i conti. È il caso, ad esempio, delle frequenti
mistificazioni sul Medioevo, periodo buio per eccellenza sovente
sminuito a vantaggio del Rinascimento, che, tuttavia, a dispetto
della fioritura artistica senza precedenti, non si distinse
certo per la mancanza di episodi di sanguinaria intolleranza
(basti pensare a Savonarola o alla cacciata degli Ebrei di
Spagna). E che dire dell’idea condivisa a proposito delle
presunte condizioni economiche disastrate del Regno delle Due
Sicilie in epoca risorgimentale, sebbene sempre più studiosi
sostengano che il declino sia cominciato con l’intromissione
piemontese nella politica locale? E proprio al periodo unitario
risale una delle questioni storiografiche di scottante
attualità, vale a dire il giudizio sulla figura di Garibaldi,
decaduto pilastro della nostra storia dopo essere stato a lungo
esaltato come “eroe dei due mondi” e padre spirituale
dell’agognata riunificazione italiana. Una questione piuttosto
sentita dai siciliani, se è vero che da tempo, specialmente
attraverso la letteratura, si sono impegnati a tratteggiarne un
efficace controritratto. Oggi, anche per merito di questa feroce
volontà isolana di puntualizzazione, le ombre e le dissonanze di
quella spedizione sembrano un dato acquisito: ma quand’è che
questa consapevolezza ha mosso i primi passi?
Benché d’istinto saremmo portati a vedere nella novella
verghiana Libertà (1883) la capostipite di tale movimento
revisionista, grazie alle ricerche sempre certosine e dirompenti
di Leonardo Sciascia sappiamo che già all’indomani dell’Unità un
intellettuale siciliano, in un clima di generale approvazione e
santificazione delle imprese dei Mille, aveva osato levarsi
contro quel coro unanime.
Si trattava di tale padre Giuseppe Buttà, al quale lo scrittore
di Racalmuto, intervenendo sul giornale L’Ora, rendeva merito
nel 1965: «Dopo aver letto le ottocento pagine del suo libro (Da
Boccadifalco a Gaeta, ndr), debbo confessare che questo padre
Buttà mi piace. Non per la causa, peraltro anche allora
irrimediabilmente non giusta e persa di più, ma per l’ardore e
il coraggio con cui la difende. Nel 1875, nell’Italia unita,
nell’Italia che ha già i suoi intoccabili miti dell’unità, padre
Buttà ha il coraggio di dire male di Garibaldi, di smontarne il
mito».
Su questa stessa scia, del resto, i nostri giganteschi letterati
avevano aspramente criticato, quando non deriso, gli ideali
rivoluzionari che Garibaldi, più o meno fittiziamente, si era
intestato. Al generale nativo di Nizza, infatti, furono inviati
eloquenti strali dal Pirandello patriottico della novella Le
medaglie (1904), dal Vincenzo Consolo che ripercorre le sommarie
esecuzioni dei contadini di Alcara Li Fusi in Il sorriso
dell’ignoto marinaio (1976), dal capolavoro di Tomasi di
Lampedusa (1958).
A chi si riferiva, d’altro canto, il Principe di Salina, se non
a quel discutibile “pacificatore” giunto nell’isola per ottenere
l’annessione dell’isola, nel pronunciare il motto immortale “se
vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”?
Una condanna senza appello, insomma. Una battaglia che i
siciliani, colpiti dalle nefandezze che Sciascia definì
«scheletri nell’armadio di cui non bisognava parlare», hanno da
sempre combattuto in prima linea.
Lo stesso Sciascia che, interrogato direttamente sul tema, in
diretta televisiva Rai nella trasmissione intitolata
significativamente “Serata Garibaldi” del 1982, ebbe a dire,
chiosando in maniera a dir poco perfetta: «Garibaldi venne in
Sicilia con il proposito di non cambiare nulla. Di annettere il
Regno delle due Sicilie a quello sabaudo. E basta. Non voleva
essere disturbato da movimenti rivoluzionari. Non ci fu una
promessa vera e propria di redistribuzione delle terre e di
riforma agraria. Ma quando si parlava di libertà, per i
contadini di Bronte si intendeva libertà dal bisogno. E il loro
era un doppio bisogno, vessati com’erano non solo dall’antico
feudalesimo, ma anche da quello che apparteneva agli inglesi. Fu
questo a rendere ancor più cruda la reazione di Bixio: la
volontà di non voler disturbare gli interessi degli inglesi.
Vorrei che su Garibaldi non ci fosse tanto garibaldinismo, che
mette in castigo i suoi detrattori e in Paradiso i suoi amici».
Difficile pensare ad una chiusura del cerchio più sintetica ed
incisiva per un secolo siciliano di lotta alle versioni
ufficiali. Sarebbe il caso, forse, di ricorrere al sempreverde
“ai posteri l’ardua sentenza”. Se non fosse che i posteri si
sono già chiaramente espressi.
29 agosto 2021
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