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Anno V n° 4 Settembre 2013

Il caso
Gela: Industrializzazione senza sviluppo
di
Salvatore Costantino
ECONOMIA SICILIANA
Il petrolchimico di Gela come simbolo di uno sviluppo distorto,
dello sguardo corto di gruppi monopolistici pubblici e privati e
di classi dirigenti che non hanno saputo e voluto legare il
Mezzogiorno alla qualità dello sviluppo dell’intero paese.
Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia
meridionale, il libro di Eyvind Hytten e di Marco Marchioni
apparso nel 1970, non è stato utilizzato al fine di
un’inversione di tendenza, come sostenevano i due autori, nelle
politiche per l’industrializzazione, per il Mezzogiorno, per un
tipo di sviluppo in grado di avvicinare crescita economica e
benessere. E’ ancora possibile, tuttavia, sperare nella
formazione di classi dirigenti con lo sguardo meno corto. A
queste ultime Industrializzazione senza sviluppo avrà ancora
molto da dire.
1. Industrializzazione senza sviluppo e disastri ecologici
Ritornare sulle politiche dei poli di sviluppo1 nel Mezzogiorno
che continuano a produrre effetti negativi sulla società e
sull’ambiente, non vuol dire in alcun modo riproporre un mero
scavo archeologico su un periodo storico che accese grandi
speranze, seguite purtroppo rapidamente, da brucianti delusioni
non avendo dato risposte adeguate alle due fondamentali
“questioni” (già ben individuate da Franchetti e Sonnino), che,
dall’indomani dell’unità d’Italia, hanno condizionato e
continuano a condizionare profondamente la società italiana: la
questione meridionale e la questione mafiosa.
In verità, riflettere sulla genesi del fallimento delle
politiche dei poli e, in particolare del caso gelese, sui pochi
risultati acquisiti, sugli effetti perversi che continua ad
avere sul permanere e approfondirsi della questione meridionale
e della questione mafiosa, può contribuire a gettare nuova luce
sugli errori del passato e sulla qualità dello sviluppo
necessario e sostenibile non solo per il Mezzogiorno, ma per
l’intero paese.
Ritornare sulla genesi, pur nella dimensione apparentemente
micro, del caso gelese, non è puro esercizio storiografico, in
quanto come si vedrà, coinvolge, in ogni suo aspetto, gli
aspetti strutturali macro riguardanti la sfera nazionale e, per
molti versi, quella globale.
Dal punto di vista sociologico e di analisi delle politiche
pubbliche, proprio in questa direzione vanno le recenti
considerazioni di John H Goldthorpe quando si propone di
spiegare i macro fenomeni attraverso l’analisi empirica dei
micro processi “generativi” che possono “portare alla luce
configurazioni inedite e non intuitive dei fenomeni sociali,
all’insegna della massima «nuovi strumenti di osservazione
producono nuova conoscenza”2. Ciò vale anche al fine di dare
nuovo impulso alla ricerca sociologica, in particolare
nell’analisi delle politiche pubbliche e del futuro del
capitalismo3, in quanto si vengono a costituire “ottimi ambienti
per il controllo empirico delle teorie”. In particolare per dare
una risposta in termini interdisciplinari ai problemi che
riguardano la migliore conoscenza dei problemi dello sviluppo e
della sua qualità inserendo l’ambito locale in
quello nazionale e globale. Ciò è tanto più necessario e urgente
quanto più le analisi più recenti tracciano un profilo non
nitido del Mezzogiorno e, pur rilevando una situazione variegata
(non priva di processi innovativi), segnalano vistosi processi
di regressione che rendono la ricerca e lo stesso discorso
politico più difficile e l’oggetto d’analisi più opaco.
2. Il petrolchimico di Gela: conseguenze di uno sviluppo
industriale mancato
Mentre restava dolorosamente aperta la ferità dei casi
Thyssen, Eternit, e Ilva, ad approfondirla ha contribuito,
ancora una volta, l’esplosione di un caso Gela. Il nuovo
“incidente” è avvenuto il 4 giugno scorso in uno dei più grossi
impianti industriali di Sicilia, il petrolchimico di Gela. Il
disastro ecologico minaccia ancora la condizione del territorio,
del mare e delle coste. Con la fuoriuscita di almeno una
tonnellata di greggio si conferma la tragica realtà di “quelle
zone che da decenni fanno già i conti con le mefitiche
esalazioni dell’aria e con le infiltrazioni nelle falde
acquifere e nei terreni ritenuti causa dell’aumento esponenziale
di gravi patologie”4. Siamo in presenza di impianti altamente
inquinanti, ormai obsoleti, mai bonificati, pur essendo state le
opere di bonifica finanziate con 40 milioni di euro serviti solo
a mantenere strutture inutili. A proposito dell’Ilva di Taranto,
Adriano Sofri ha parlato di “Odissea”. Nel caso di Gela
bisognerà parlare di tragedia considerando l’allargarsi della
portata del disastro ambientale. Secondo Legambiente sono
40 milioni le tonnellate di petrolio da raffinare che arrivano
in Sicilia annualmente. Inoltre va tenuto conto dei rischi
derivanti dalle trivellazioni delle piattaforme in mare per la
ricerca di idrocarburi che coinvolgono ben 12 punti nel canale
di Sicilia. Bisognerà ancora aggiungere, per avere una più
esatta cognizione del disastro, le centrali termoelettriche
alimentate con combustibili ad alto rischio.
La situazione, stando a recentissimi rilevazioni tra la
popolazione gelese, tende ancora a peggiorare. L’aria è divenuta
irrespirabile. Le emissioni gassose e marine dello stabilimento,
protrattesi e divenute sempre più pericolose nel tempo. Nel
territorio gelese si sono diffuse particolari tipi di
malformazioni come per esempio le ipospadie, e particolari
neoplasie. L’azione dei numerosi comitati ambientalisti e
dell`Organizzazione Mondiale della Sanità ha potuto accertare la
gravità dell’azione ambientale. La magistratura è intervenuta
con condanne e l’imposizione di limiti alle attività
industriali. La situazione diventa, di giorno in giorno, sempre
più tragica, respingendo cinicamente nella più vacua astrazione,
nella più vuota retorica ogni discettazione sulla responsabilità
sociale delle imprese. Sempre più cariche d’angoscia e di paura
si fanno le denunce dei gelesi per l’aumento crescente di
bambini nati con gravissime malformazioni. Da un’indagine,
svolta nel 2002, risulta che in un solo anno sono nati nel
comune di Gela 512 bambini affetti da gravi malformazioni. Dai
primi risultati acquisiti all’ARPA, l’Agenzia Regionale
Protezione Ambiente, è stato possibile verificare che la
presenza di veleni nell’aria è superiore a quella consentita
dalle leggi nazionali e anche la falda acquifera sottostante
risulta fortemente inquinata.
A Gela – (afferma un’indagine de L’Espresso che fa riferimento
ad uno studio ancora inedito dell'Osservatorio epidemiologico
della Regione Sicilia intitolato Stato di salute della
popolazione residente nel sito di interesse nazionale per le
bonifiche di Gela) - morte e malattia risparmiano poche,
fortunate famiglie. Non si salva nessuno: operai, impiegati,
avvocati, casalinghe o professionisti, le malattie sono
democratiche e se ne fregano delle classi sociali.
L'inquinamento diffuso sembra ormai un dato acquisito, così come
le sue conseguenze sulla salute della popolazione. L'area della
città, insieme a Niscemi e Butera (108 mila abitanti) è uno dei
siti d'interesse nazionale ad alto rischio. La devastazione di
acque, terra e aria è stata causata secondo esperti e
ambientalisti dal polo industriale che come si legge in un
report dell'Istituto superiore di sanità pubblicato nel 2009,
"ha comportato nel corso degli anni una progressiva
contaminazione di diverse matrici ambientali, nelle quali sono
stati rilevati livelli estremamente elevati di inquinanti
chimici con caratteristiche di tossicità, persistenza e
bioaccumulo". Traducendo, l'Eni ha sparpagliato i veleni in
lungo e largo per decenni. Anche i dati epidemiologici "hanno
evidenziato" ragiona l'Iss "la presenza di patologie in eccesso
rispetto alle aree limitrofe e alla regione." Eppure il nesso
causa-effetto tra inquinamento industriale e malattie non è
stato ancora provato, né in sede scientifica né in quella
giudiziaria: le norme e le leggi italiane sono spesso
inefficaci, così l'Eni finora se l'è cavata alla grande. Presto,
però, la musica potrebbe cambiare. Se a Taranto nel mirino della
procura è finita l'Ilva e i Riva di Milano, anche nella punta
orientale dell'isola di Leonardo Sciascia ("Il petrolio? Mi
creda, se lo succhiano, se lo succhiano. È così che finisce col
petrolio: una canna lunga da Gela a Milano, e se lo succhiano",
scriveva lo scrittore in un racconto del 1966) i magistrati
sembrano aver messo il turbo. In pochi mesi i pm guidati da
Lucia Lotti hanno aperto varie inchieste, e oggi sono 14 i
processi istruiti per reati gravissimi, da quelli ambientali
all'omicidio colposo. Sotto accusa sono finiti dirigenti ed ex
quadri di aziende dell'Eni, il colosso statale che controlla il
petrolchimico nato per volontà di Enrico Mattei nel 1965.
Qualcuno in città spera che nei confronti dello stabilimento
siano prese misure draconiane, che i pm facciano un salto di
qualità sequestrando la raffineria, come avvenuto per il
siderurgico pugliese. Da un punto di vista economico, sarebbe
uno choc: nella sola raffineria – una delle più grandi e
strategiche d'Europa – lavorano circa 1100 persone, altre 500
nell'indotto, ma a questi vanno aggiunti altre migliaia di
operai delle ditte esterne. Non solo. A Gela vengono lavorati
ogni anno circa 5 milioni di tonnellate di greggio pesante e
semilavorati proveniente dai pozzi di Gela, Ragusa, Egitto,
Libia e Iran, che in Sicilia viene trasformato in benzina,
cherosene, gasolio, gas e gpl. Un blocco della produzione
rischierebbe di mettere in ginocchio l'azienda amministrata da
Paolo Scaroni, mentre alle ripercussioni sociali si sommerebbero
quelle finanziare a Piazza Affari 5.
L’assessore ragionale all’economia Luca Bianchi, studioso della
Svimez, preferisce non
commentare nel dettaglio questi dati ancora non pubblici.
Tuttavia non può fare a meno di
dichiarare: “Ma di certo la situazione ambientale è pesante.
Come a Taranto, anche a Gela servono investimenti importanti per
attenuare l’inquinamento. Oggi per motivi di congiuntura la
raffineria sta producendo di meno, ma non basta. Bisogna fare di
più”6. Secondo un’analisi costi-benefici pubblicata dalla
rivista internazionale Environmental Health nel 2011, a Gela “i
costi della bonifica ammonterebbero a circa 6,6 miliardi di
euro”.
Di fronte all’aggravarsi della situazione, giustamente è stato
chiesto al presidente della Regione Crocetta di farsi rendere
conto per “omissioni e ritardi” che si accumulano
sistematicamente da decenni elevando progressivamente la mappa e
la gravità del rischio e dell’insicurezza. Basteranno le solite
promesse? O, invece, non è necessaria una svolta radicale non
solo a Gela e nel Mezzogiorno, ma nelle politiche industriali e
di sviluppo che riguardano l’intero paese?7
Questa fase di stallo non sarà mai concretamente avviata a
superamento se non si comprenderà che la questione meridionale,
come si è già accennato, è parte integrante della questione
italiana e che riguarda il tipo di sviluppo della società
italiana e la qualità stessa della sua democrazia8.
Di questo modo di intendere lo sviluppo del Mezzogiorno e paese
c’è una grande consapevolezza già in un testo importante del
1970 di sorprendente attualità, dal quale hanno origine le
osservazioni che precedono e che seguiranno.
Che lo si voglia o no, il Mezzogiorno, con la sua miseria e le
sue prospettive, le sue contraddizioni e contrasti, continuerà
ad essere il banco di prova per tutto ciò che si fa e si
cercherà di fare per creare una società più giusta e civile per
tutti gli italiani.
Anche sul faticoso cammino del progresso economico e sociale,
teso a trasformare la società tradizionale ed essenzialmente
rurale in una moderna dinamica e fondata su una economia più
diversificata e propulsiva, quello che viene fatto e non fatto
nel Mezzogiorno, condizionerà per vie dirette ed indirette la
validità dell’intero sviluppo nazionale.
E non è un paradosso affermare che la stessa arretratezza del
Mezzogiorno rispetto al resto del paese lo fa diventare oggi,
una punta avanzata di tutta la tematica dello sviluppo; i suoi
maggiori bisogni e la conseguente reattività agli effetti sia
benefici che nocivi delle trasformazioni, ci permettono di
misurare e prevedere quali siano i risultati, le prospettive ed
i rischi di un processo di trasformazione che investe la società
italiana. Se quindi vogliamo che il progresso economico e
sociale, promosso e sollecitato dalle istituzioni
pubbliche e della collettività, diventi qualcosa di più che la
semplice accelerazione di vari processi e avvenimenti già in
corso per conto proprio, è sempre al Mezzogiorno che bisogna
guardare. Se cioè si vuole che lo sviluppo della società sia
l’espressione di una determinata politica.
È sempre difficile fare un discorso basato sul concetto della
“volontà collettiva” di una determinata società, e pressoché
impossibile quando si tratta di una società ancora così lacerata
e divisa nelle sue idee e aspirazioni qual è quella italiana. Su
due punti, però, è forse possibile fissare dei parametri
generalmente riconosciuti come guide valide per lo sforzo di
trasformare in meglio la società. L’uno riguarda, appunto,
l’esigenza che le forze preposte allo scopo abbiano un ruolo
propulsivo e non solo di affrancamento a determinati processi
autonomi al di fuori del loro controllo: non vi è accordo di
fondo su quale politica di sviluppo bisogna seguire, ma almeno
sul fatto che una politica ci deve essere; che la società
attraverso le sue istituzioni dev’essere la protagonista e non
solo l’oggetto delle trasformazioni in corso. In secondo luogo,
potrebbe dirsi generalmente accettata l’idea che, in un modo o
nell’altro queste trasformazioni debbano risultare non solo un
aumento globale delle risorse, delle opportunità, in breve della
somma dei valori materiali e spirituali di cui la società
dispone, ma anche in una loro diversa distribuzione all’interno
della società stessa, in modo da assicurare relativamente di più
a chi attualmente ha di meno; cioè che lo sviluppo deve avere
una finalità non soltanto quantitativa ma anche qualitativa, in
termini di maggiore giustizia sociale9.
3. Una Sicilia “senza”
Il brano citato fa parte dell’introduzione (Industria,
sviluppo e Mezzogiorno) a Industrializzazione senza sviluppo.
Gela: una storia meridionale. Il volume pubblicato da Franco
Angeli nel 1970, cioè
nel bel mezzo dello svolgimento della vicenda del petrolchimico
gelese, sviluppa un’analisi critica, rigorosamente scientifica,
ricca di indicazioni per il futuro e di spessore progettuale. Il
titolo inaugura la lunga serie delle “incompletezze”, delle
“mancanze”, dei “senza”, dei fallimenti, dei molti, inevitabili
complementi di privazione attribuiti ora all’intero paese, ora
al Mezzogiorno, ora alla Sicilia. Del 1980 è il noto libro di
Alberto Arbasino, Un paese senza; del 1992, Sviluppo senza
autonomia di Carlo Trigilia; dello stesso anno Mezzogiorno senza
meridionalismo di Giuseppe Giarrizzo. Lo scopo dichiarato e
perseguito sistematicamente di Industrializzazione senza
sviluppo è quello di “misurare e prevedere quali siano i
risultati, le prospettive ed i rischi di un processo di
trasformazione che investe tanto le aree sottosviluppate quanto
quelle opulente, la società italiana
nel suo complesso10. Un obiettivo squisitamente scientifico,
dunque. Non si parla soltanto di Gela, ma la storia del paese
mediterraneo è inserita nel quadro, molto più ampio, che
riguarda il processo di sviluppo (e della sua qualità)
dell’intera società italiana, i risultati raggiunti, le sue
contraddizioni, le correzioni possibili. Autori del volume sono
Eyvind Hytten, docente all’Università di Stoccolma, che fino al
1964 dirige il Centro Studi e iniziative per la piena
occupazione presieduto da Danilo Dolci e Marco Marchioni,
studioso dei problemi dello sviluppo e collaboratore del Centro
Studi di Dolci. Gli autori hanno il merito di esibire
concretamente i dati di un processo di sviluppo distorto, per
diversi aspetti violento, nei confronti della natura e della
società. L’analisi critica dei due studiosi non si ferma solo al
livello dell’individuazione degli effetti perversi, nella misura
in cui sa individuare i punti che avrebbero potuto trasformare
l’industrializzazione senza, in industrializzazione con, cioè
non scorporata dal sociale e integrata nel territorio.
Come è stato fatto osservare11 la cittadina affacciata sul
Mediterraneo è diventata simbolo di una vicenda storica molto
più ampia: Al suo interno confluiscono modalità di relazione e
potere che comprendono caratteri generali e a loro modo
universali, connessi in sostanza alla relazione tra grande
capitale e territori periferici. Parlare di Gela significa
infatti discutere della relazione tra centro e periferia, degli
esiti dell’industrializzazione diretta centralmente, del
sottosviluppo (o dell’“industrializzazione senza sviluppo”),
delle relazioni “coloniali” (un’espressione forte, a mio avviso
decisamente calzante, ma riproposta frequentemente dagli attori
sociali), del ricatto occupazionale, dell’incertezza, del
rischio
sanitario e della resistenza che essa genera in ristretti
gruppi, della passività delle masse e dell’illegalità come
risorsa …Il capitale, ovvero la relazione tra investimenti
tecnologici e forza lavoro impiegata, costituisce probabilmente
la variabile indipendente e centrale dell’analisi; quella da cui
derivano effetti materiali (inquinamento, inclusione ed
estromissione ciclica della forza lavoro, creazione di indotto,
malattie ambientali, ecc. e “percezioni” (rischio, pericolosità
degli impianti, innocuità delle emissioni, ricchezza, miseria12.
Hytten e Marchioni sostengono che non si è verificato alcuno
sviluppo economico-sociale di rilievo nel “polo” di Gela
nonostante il massiccio intervento dello Stato: “Ci vuole più
che l’industria per industrializzare”, affermano.
Il libro mostra, con dovizia di approfondimenti e ricchezza di
indicazioni positive di grandissima attualità, le ragioni del
fallimento dell’industrializzazione e del mancato sviluppo
integrato nel territorio. Ma di quale sviluppo parlano i due
autori all’inizio degli anni settanta? Lo sviluppo basato sulla
sola logica del profitto, affermano, sul concentramento del
potere e delle opportunità e sull’emarginazione della
collettività, non solo è destinato al fallimento, ma ad
aggravare i problemi delle aree a sviluppo ritardato. Di più: il
connubio tra tecnicismo e dirigismo capitalista e “atteggiamenti
borbonici”, impastato con visioni miracolistiche del progresso,
aveva gravemente ipotecato altre, più sostenibili e credibili,
ipotesi di sviluppo:
Lo sviluppo basato sull’accumulazione – scrivono Hytten e
Marchioni - anziché sulla distribuzione dei beni, sul
concentramento del potere e delle opportunità, sull’ulteriore
emarginazione della collettività anziché sulla maggiore
partecipazione di questa alla vita pubblica, è un pericolo che
investe tanto la società opulenta quanto le comunità in via di
trasformazione. A Gela abbiamo potuto vedere una delle
manifestazioni più crude di questo pericolo e allo steso tempo
l’unica soluzione possibile che quella di saper coinvolgere
tutti nei processi che determinano il loro futuro13. I due
autori citano una frase efficace di un ricercatore empirico, A.
Mountjoy - autore di
Industrialization and Underdeveloped Countries,: “ci vuole più
che l’industria per industrializzare”14.
Non basta la presenza né di una né di molte industrie perché il
sistema economico e sociale di una società finora statica faccia
il”salto” alla civiltà industriale in tutti i suoi significati;
tale civiltà consiste in molto di più di un determinato modo di
produzione e consumo. La seconda fase del ragionamento, invece,
tende a porre in dubbio se l’industrializzazione in questo
senso, anche se fosse possibile e prevedibile nel caso
esaminato, corrisponderebbe a ciò che si può intendere per
“sviluppo”; se l’eventuale futuro accostamento dell’economia e
della vita sociale del Meridione ai “modelli del settentrione
industrializzato, sia necessariamente l’unico parametro
valutativo per una
politica di sviluppo del Sud15.
È inevitabile, oggi, pur con l’occhio puntato sul futuro, sui
processi in atto, interrogarsi su quanto avrebbe potuto influire
sulle strategie di sviluppo la valorizzazione delle importanti
indicazioni, basate sulla rilevazione empirica, dei contenuti di
Industrializzazione senza sviluppo che restò, invece, ignorato.
Eppure già nella prefazione il messaggio di Hytten e Marchioni
era molto chiaro: Non pensiamo…che quello di Gela sia un caso
tanto “specifico”, né che il problema dell’intero Mezzogiorno
possa essere affrontato come uno a se stante; ci pare invece che
i tanti aspetti dello sviluppo incontrati in diversi posti del
Meridione siano delle manifestazioni di una patologia sociale
che investe l’intera società, anche nelle sue zone e settori più
evoluti materialmente16.
Si trattava di un messaggio che avrebbe potuto mettere in moto
una progettualità programmata che avrebbe potuto coinvolgere i
rappresentanti del capitalismo italiano, dei grandi complessi
pubblici e privati, le forze politiche, sindacali, sociali, le
classi dirigenti.
E’ una storia che ormai si trascina tragicamente da più di un
sessantennio riducendo il nostro paese alla sferzante, fortunata
espressione di Arbasino.
Nel suo Mezzogiorno senza meridionalismo, Giuseppe Giarrizzo
scrive che gli anni cinquanta e sessanta sono stati i soli in
cui “il meridionalismo”abbia fatto la sua prova di governo”17.
Tuttavia il giudizio su questo periodo, aggiunge Giarrizzo,
resta controverso. Il Mezzogiorno in quegli anni indubbiamente
cresce, muta profondamente, “cancellando antichi squilibri e
stabilendone di nuovi. Ma. Si chiede Giarrizzo, si trattò di
crescita con o senza sviluppo? Già la disputa – scrive Giarrizzo
– pone in evidenza due punti: a) il Mezzogiorno è negli anni
1950-70 profondamente cambiato; b) il cambiamento (o sviluppo?),
anche quando è avvenuto per effetto di misure o di interventi
“meridionalisti”, non è avvenuto secondo gli esiti programmati o
gli esiti desiderati. La controversia, che dura tuttora tra
politici e tra intellettuali, ha oscurato natura e portata di
quel cambiamento; e ha prodotto la conseguenza di “sprechi”,
dovuti troppo spesso alla rincorsa delle emergenze, quando
sarebbe stato più efficace un intervento in tempi reali e
riferito al
Mezzogiorno che è, piuttosto che al Mezzogiorno quale avrebbe
dovuto essere18.
Giarrizzo non cita il libro di Hytten e Marchioni, ma sembra
concordare con le loro analisi e
conclusioni. Crescita, cambiamento, dunque, senza sviluppo. La
preposizione privativa “senza”, ritorna in Culture and Political
economy in Western Sicily degli antropologi Jane e Peter
Schneider, questa volta riferita al “processo di modernizzazione
in assenza di un reale sviluppo”, con una precisazione di ordine
socio-antropologica: La distinzione è importante; mentre la
modernizzazione e lo sviluppo implicano dei cambiamenti, lo
sviluppo muta anche i rapporti di una società rispetto ai
sistemi sociali di cui fa parte e di conseguenza aumenta la sua
capacità di tenere testa al sistema. Invece la modernizzazione
mantiene un rapporto di ineguaglianza e di sfruttamento tra
un’area dipendente e un centro metropolitano. In questo senso
ogni cambiamento è frutto non di un ordine di priorità auto
avviantesi, ma di una diffusione dal centro. Ma anche così, il
processo di modernizzazione può portare sostanziali aumenti
delle possibilità di occupazione e miglioramenti nel livello di
vita standard – spesso più velocemente e drammaticamente di
quanto possa fare un processo di sviluppo. In mancanza di un
significativo sviluppo regionale, non c’è niente che possa
impedire una rapida degradazione delle risorse a causa della
frammentazione19.
4. Al di là del “fondamentalismo semplicistico di mercato”,
ridefinire lo sviluppo per
riavvicinare crescita economica e benessere
L’esempio di Gela è particolarmente significativo oggi, nel
cuore di una gravissima crisi
economico-finaziaria, di una crisi del capitalismo che richiede
una ridefinizione del concetto stesso di sviluppo, che non può
più dipendere da quello che Adair Turner definisce
“fondamentalismo semplicistico di mercato”20. Si tratta di quel
capitalismo che “è stato salvato dai suoi stessi eccessi grazie
al contropotere del Welfare State e dello Stato regolatore»21, e
che oggi rende necessario e improrogabile rimettere in
discussione i rapporti tra diritto, economia e finanza,
valorizzando un aspetto fondamentale della società postmoderna
nella quale «il ruolo dei governi e delle scelte politiche è
vitale»22.
Ma a rendere ancora più profonda la divaricazione tra crescita
economica e benessere è quella forma dominante di capitale che
Giacomo Becattini definisce “ruggente, e Bennett Harrison
“impatient capital”23. Si tratta di quel capitale che risulta da
un esasperato orientamento a breve termine dei profitti. Diversi
elementi di queste economie cosiddette “informali” sono varianti
del “capitale impaziente” e operano nelle condizioni nelle quali
violenza e coercizione diventano le condizioni e le risorse
primarie per accumulare capitali e anche per legalizzarli
attraverso il riciclaggio del denaro sporco. Tutto ciò ha
profondamente e negativamente agito sui processi di sviluppo.
Effetti negativi si verificano non solo nelle aree in via di
sviluppo o a sviluppo ritardato, ma anche in quelle sviluppate.
E’ significativo da questo punto di vista che Il Rapporto Svimez
2012 sull'economia del Mezzogiorno si spinga fino a rilevare il
progressivo dilagare, non solo al Sud ma anzi soprattutto al
Nord, di “forme di capitalismo politico criminale”, che si
sviluppano anche in relazione al fatto che i confini tra legale
e illegale appaiono sempre più sfumati, “anche grazie
all’appoggio di un’ampia schiera di professionisti e
amministratori pubblici e privati collusi”. Le mafie, oltre ad
accumulare immensi patrimoni nelle tradizionali forme
parassitarie (in prevalenza estorsioni e usura, servizi di
protezione) attraverso il traffico d’armi, di droghe e il
contrabbando, stanno allargando la sfera dei propri interessi
anche ad altri ambiti, quali il turismo, le energie alternative,
lo smaltimento dei rifiuti, fino alle catene della grande
distribuzione organizzata. La diffusione e l’affinamento degli
strumenti finanziari consente inoltre agli investitori di
mettere in crisi il management e di acquistare progressivamente
il potere di stabilire il destino delle aziende. In questo modo
al vertice della catena di comando non si trovano più i
dirigenti d’impresa, ma nuovi gruppi di potere anche stranieri,
comunque estranei alla storia e alla cultura delle aziende24.
Quale sviluppo, credibile, sostenibile, integrato nel territorio
e nella società è possibile perseguire in queste condizioni?
Com’è possibile riavvicinare la crescita economica e il
benessere?
Fino a quando si potrà schivare la cruda realtà di un mondo
scosso alle fondamenta? È possibile non rendersi conto del fatto
che, pur tra molte contraddizioni, si sta delineando lo spazio
esperenziale di una civilizzazione globale caratterizzata da
eventi globali quotidiani25? Riuscirà il capitalismo a superare
su scala nazionale e internazionale le crisi strutturali che
sempre più lo attraversano?
La risposta a questi interrogativi non può certamente essere
ottimistica a giudicare dai processi che si stanno verificando e
approfondendo dal 2008. Questo periodo è caratterizzato da una
profonda precarietà economica-finanziaria che apre concretamente
la prospettiva di un tracollo del capitalismo sul piano globale
della portata della Grande Depressione degli anni Trenta che da’
ragione alle acute considerazioni sul capitalismo dell’autore
della Great Transformation per le quali l’idea di un mercato
autoregolato si è dimostrata un’utopia non solo sul piano
nazionale ma anche sui mercati globali e che a lungo andare
questa istituzione avrebbe finito con l’“annullare la sostanza
umana e naturale della società”, col disorganizzare la vita
industriale e col “far crollare
l’organizzazione sociale” sulla quale si regge26. A proposito di
questi “crolli” si potrebbe dire: fabula de te narratur, con
esplicito riferimento a vicende recenti e meno recenti dei
complessi industriali italiani. Oggi le critiche alla società
capitalistica, a questo tipo di sviluppo e di capitalismo, sono
diventate sempre radicali sino a mettere in crisi l’idea stessa
di crescita, di sviluppo. Si diffonde sempre di più su scala
planetaria la coscienza di quanti mettono in dubbio che la
“crescita economica” sia ancora la soluzione dei gravissimi
problemi del pianeta. Non sarà certamente la crescita a
garantire un futuro di prosperità e benessere ad una popolazione
planetaria che sta per raggiungere i nove miliardi di esseri
umani. Nessuno nega che lo sviluppo, ma anche qui deve trattarsi
di un nuovo tipo di sviluppo non fondato sugli spiriti animali
del capitalismo dominante, sia essenziale per le nazioni più
povere. Ma è necessario interrogarsi sulla qualità dei processi
economici. Ormai è scientificamente dimostrato che nei paesi
sviluppati la crescita a ogni costo porta a una maggiore
infelicità e a livelli pericolosi di disuguaglianza, al collasso
degli ecosistemi schiacciati da economie fondate sull’“iper
consumismo”.
Ma intanto si continua ad evitare strategie alternative
possibili preferendo “camminare a testa bassa sotto il cielo
plumbeo dell’economicismo”27. L’idea di sviluppo stessa diventa
il nemico principale:
Il più potente produttore di ricchezza, il modo di produzione
più rivoluzionario della storia umana, dopo tante incarnazioni,
oggi mostra il suo volto finale: è diventato la macchina di
distruzione più potente che sia mai apparsa sulla terra.
Le ricchezze accumulate dalle società industriali dovrebbero
consentire di vivere più
serenamente a un maggior numero di persone e di popoli. E
occorrerebbe che i paesi a basso reddito fossero lasciati liberi
e aiutati a cercare il proprio benessere materiale secondo i
propri mezzi, risorse, culture. E invece lo sviluppo ci trascina
in un agone forsennato come se fossimo d’improvviso precipitati
in povertà. Noi crediamo che l’economia dello sviluppo sia
diventata un’economia della miseria, costretta a generare
miseria, reale e artificiale, per sopravvivere. E noi ambiremmo
concorrere invece ad una durevole ed equa prosperità, che non è
più possibile senza un nuovo patto con la natura, senza mutare
il nostro rapporto con le risorse e con tutti i nostri simili,
senza cambiare mezzi e fini del produrre e del consumare28.
Il concetto di sviluppo, nato per tentare di ridurre gli enormi
squilibri nella distribuzione della ricchezza e logoratosi
progressivamente in vistosi fallimenti e inefficacie
interpretative, pare che non sia, oggi più che mai, in grado di
farci comprendere il mondo in cui viviamo. Una categoria ormai
da disapprendere in quanto “strumento politico di gestione delle
diseguaglianze e di stabilizzazione del sistema nel suo
insieme”:
Negli ultimi decenni, la consapevolezza della sua
irrealizzabilità ha aperto spazi per la
sperimentazione dei valori culturali e ha spinto, “dall’alto”, a
una limitazione del suo potenziale egualitario e al ricorso a
nuovi e più efficaci strumenti di contenimento delle tensioni
derivanti dalle persistenti e molteplici diseguaglianze, in
primo luogo attraverso la retorica della globalizzazione Da qui
l’esigenza di un suo disapprendimento attivo e della ricerca, o
meglio della riconsiderazione, di più valide alternative
concettuali29.
Si tratta, dunque, di disapprendere, di liberarsi dal tipo di
sviluppo, allo stesso modo in cui per costruire nuovo capitale
sociale positivo è necessario cercare di liberarsi
contemporaneamente di quello negativo. Crediamo che questi più
diffusi rilievi critici siano rivolti anche verso le retoriche e
le intransigenze, come direbbe, le rigide separatezze
disciplinari, verso le astrattezze matematizzanti e la
dimensione caotica che caratterizza, spesso, la trattazione dei
problemi dello sviluppo, dello stato attuale e del futuro della
società capitalista. Dalle più recenti indagini empiriche sono
stati messi in evidenza i limiti “delle diverse teorie della
crescita quando esse pretendano di essere uniche e abbiano un
approccio alla realtà di tipo deterministico”30. Per superare
questa fase di stallo è necessario tornare a riflettere, in modo
il più possibile pluridisciplinare, (diciamo così, per non
indulgere ad una certa astratta retorica
dell’interdisciplinarità)I, sulle condizioni di sviluppo delle
società complesse e su come affrontare i problemi delle aree
cosiddette sottosviluppate, a sviluppo ritardato o distorto,
ecc.
5. Industrializzazione: da speranza a incubo.
Col varo di una vera e propria politica di
industrializzazione (incentrata sui cosiddetti “poli di
sviluppo”) del Mezzogiorno, l’intervento statale, nel 1957 con
la legge 634 (che prorogava la Cassa per il Mezzogiorno)
prevedeva: 1) agevolazioni fiscali e finanziarie; 2) contributi
a fondo perduto del 20% per piccole e medie industrie; 3) la
costituzione di consorzi per attrezzare e gestire aree
industriali; 4) vincolava le aziende a partecipazione statale a
localizzare nel Mezzogiorno il 60% degli impianti industriali e
il 40% degli investimenti complessivi. Nel quinquennio 1959-1963
si insediano al Sud grandi complessi pubblici e privati che
operavano nella siderurgia, nella chimica e nella petrolchimica.
La scoperta del cosiddetto “oro nero” (bisogna dire di pessima
qualità! Si è parlato del “peggiore greggio del mondo”)31,
alimentò, speranze, volontà di riscatto, industrializzazione,
sviluppo in un contesto come quello gelese in cui erano rimaste
deluse le aspettative del mondo contadino, notevoli erano i
processi migratori, forte il potere della grande proprietà
terriera e della mafia.
Scriveva Vittorio Nisticò in un editoriale de L’Ora del 26 marzo
1960, a pochi mesi dai moti
palermitani del luglio ‘60:
Confessiamo che l’annuncio ufficiale, dato da Mattei,
dell’imminente inizio dei lavori per la
costruzione del complesso di Gela – uno dei più grandi complessi
industriali d’Europa – ci ha dato un senso di genuina emozione.
Dove stagna da tempo una depressione secolare stanno per aprirsi
grandiose prospettive di lavoro e di attività moderna; dove di
antica grandezza non restano che ricordi muti e ruderi sta per
nascere una città nuova, una vera e propria capitale del
petrolio, la cui presenza modificherà molte cose. Ci vuole
infatti poco per prevedere che Gela, se da una parte potrà
contribuire, come ci auguriamo, a fare della Sicilia il secondo
“triangolo industriale” d’Italia, darà dall’altra parte
l’occasione al nostro paese di avere in una Sicilia avviata
all’industrializzazione un centro propulsore in pieno
Mediterraneo, ossia in un crocevia che con la ripresa del mondo
asiatico e il moto di indipendenza degli africani sta già
ridiventando uno dei passaggi obbligati dei rapporti mondiali
della civiltà umana. 32
Emanuele Macaluso faceva osservare che con le lezioni dl 1953 il
blocco di centrodestra ricevette un forte colpo d’arresto anche
in relazione alla spaccatura che vi provocò la “legge truffa”:
La sconfitta elettorale e politica del 1953 suggerì alla DC un
“rinnovamento” politico e organizzativo di cui si fece portatore
Fanfani con l’intento di riaggregare un blocco di potere su basi
più “moderne”. In tutto il Mezzogiorno e in Sicilia si apriva
una nuova fase economica. L’economia granaria era in crisi e si
iniziava il grande flusso migratorio mentre entravano in
funzione i nuovi strumenti della politica riformista: la Cassa
per il mezzogiorno e gli enti di riforma agraria. Si cominciò
allora a parlare anche di una espansione capitalistica verso il
sud e si creò l’illusione che l’arrivo dei grandi
gruppi monopolistici pubblici e privati avrebbe liquidato
l’arretratezza meridionale.
In Sicilia per di piú l’odore del petrolio attirava l’interesse
tanto degli americani che dell’ENI: grandi speranze,grandi
inganni e grosse delusioni si profilavano all’orizzonte
dell’isola. E’ il tempo in cui Palermo e le altre città
s’ingrossano per l’afflusso di burocrati e poveri cristi dai
paesi dell’interno che si spopolano. La mafia sistema i suoi
uomini nella burocrazia regionale e negli enti pubblici
regionali. Si cominciano a dare i primi colpi di piccone che
abbattono le villette di via Libertà e si dà l’avvio a uno
sviluppo edilizio pilotato da gruppi di speculatori che
“intuiscono” e impongono la direzione di espansione della città.
Da allora in poi i nuovi quartieri e le “varianti” al piano
regolatore portano i nomi della vecchia e nuova mafia in un
intreccio di interessi e di delitti che trova nel municipio di
Palermo un punto di propulsione e di raccordo.
All’interno della DC palermitana le acque sono agitate. Il
vecchio blocco di potere, fondato su notabili cattolici e sul
ceto di professionisti governativi per vocazione e interesse,
garanti di “buona amministrazione” tolleranti e comprensivi per
il “ruolo d’ordine” che esercita la mafia contro le teste calde
della delinquenza e le impazienze dei comunisti, è in crisi33.
Nelle “Note cronologiche” di Accadeva in Sicilia di Nisticò dà
notizia di un importante convegno del Cepes (Comitato europeo
per il progresso economico e sociale), tenuto a Palermo e
organizzato dalla Sicindustria, l’organizzazione degli
industriali siciliani presieduta dall’ing. Domenico La Cavera:
Vi partecipano i massimi esponenti del capitalismo italiano: il
prof. Valletta (Fiat) che tiene la relazione introduttiva,
Giorgio Valerio (Edison), Farina (Montecatini), De Micheli
(presidente della Confindustria) insieme agli stati maggiori di
Confagricoltura,e Confcommercio. Richiamati dalla scoperta del
petrolio e dalle prospettive di sviluppo industriale, oltre che
dalle generose risorse finanziarie della Regione, mettono a
punto le condizioni per la loro “calata” nell’isola. In sostanza
chiedono l’assoluto controllo da parte dell’iniziativa privata e
disco rosso per quella pubblica, in primo luogo l’ENI, niente
programmazione34.
Ma quanto a programmazione e progettualità, il convegno ebbe ben
pochi risultati.
Che quel decennio sia stato vitale e dinamico lo testimonia
Paolo Sylos Labini, che insegna in Sicilia negli ultimi anni
’50, e in quegli anni conduce una importante ricerca
sull’economia siciliana, pubblicata nel 1966 da Feltrinelli in
un volume da 1500 pagine. Tornando a riflettere sulla questione
(Sylos Labini 1980) identifica nella fine degli anni ‘50’ il
blocco della crescita del manifatturiero, fissando il punto di
svolta nel 1958:
Durante il periodo che va dal 1951 al 1958, i fenomeni più
notevoli sono costituiti dall’esodo agrario (che poi si
accelera), da un certo sviluppo dell’occupazione dell’industria,
dei servizi e della pubblica amministrazione. Dopo il 1958
l’occupazione industriale tende a ristagnare; fino al 1958
cresce, come risultato di una somma algebrica, data dal calo
dell’occupazione delle unità artigianali premoderne e dallo
sviluppo di unità artigianali e industriali di tipo moderno e
dalla creazione di grandi stabilimenti […]. Si tratta di uno
sviluppo industriale particolare, simile a quello che si osserva
in altre regioni meridionali: compaiono alcune grandi unità
provenienti da fuori, ma sorgono anche, localmente, numerose
piccole unità35.
E Sylos Labini testimonia anche il ruolo di La Cavera e delle
“spinte sociali” che Sicindustria rappresentava: In quel periodo
noi assistiamo a spinte sociali ed a strategie politiche
molteplici e contraddittorie, provenienti dagli stessi gruppi
sociali. Interessante è l’episodio dell’industriale La Cavera
[…] che si era fatto fama di “enfant-terrible” della
Confindustria, perché era entrato in conflitto con De Biase, un
personaggio potente in quell’organizzazione. La Cavera cercava
di far valere le esigenze dell’industrializzazione dell’isola,
sia attraverso una politica d’incentivazione, sia attraverso
iniziative industriali di tipo regionale”36.
Oltre al petrolio in Sicilia si trovavano zolfo, salgemma e sali
potassici che nel dopoguerra avevano trovato un ampio mercato
soprattutto nel campo dei fertilizzanti agricoli. Nel 1963 il
Parlamento regionale siciliano crea l’EMS, l’Ente minerario
siciliano col progetto ambizioso di unificare le miniere di
zolfo, di riorganizzarle e ammodernarle e alla creazione di un
polo per la produzione di fertilizzanti. L’EMS avrebbe dovuto
essere l’organismo propulsore di una politica energetica
dell’isola, in realtà era uno dei pilastri sui quali poggiava
“la malsana idea della Regione imprenditrice”37 e che sarà al
centro di tanti scandali e di inauditi sperperi delle risorse
pubbliche. “L’Eni in “formato siciliano” - hanno documentato
Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria -è stato “uno dei più
grossi carrozzoni comparsi nel pur ricco territorio
dell’apparato parastatale” che ha accumulato debiti per
120.000.000.000 di lire, costi per personale e funzionamento
pari a 25.000.000 di lire e che è costato invece
1.500.000.000.00038.
Ma tutto ciò ha solamente fatto balenare il miraggio del decollo
industriale della Sicilia, dello sviluppo. Ben presto, Gela è
costretta a fare amaramente i conti con una pratica di sviluppo
distorto calato“dall’alto”, non integrato nel territorio, con un
processo di industrializzazione distante dalla società reale,
dalla cultura, dalla politica, dalle istituzioni.
Il 17 giugno 1960 viene posata la prima pietra del nuovo
stabilimento petrolchimico dell’Eni a Gela. Un evento epocale
per i suoi abitanti, che sognano facili ricchezze e l’abbandono
delle incertezze e delle fatiche dell’agricoltura. Non
immaginano ancora che la grande industria che si sta insediando
nel loro territorio avrebbe causato gravi squilibri ambientali,
e sollevato gravi problemi per la salute dei suoi cittadini. Da
allora si è sviluppato uno stretto rapporto tra il Polo
petrolchimico e Gela. Da un lato l’azienda offre posti di lavoro
di fondamentale importanza in una Città che non è stata capace
di sviluppare un settore industriale parallelo o ingrandire il
terziario. Di contro però rappresenta anche il “nemico” che
inquina il mare e avvelena i cittadini. L’area di Gela è stata
dichiarata ad alto rischio
di crisi ambientale già dal 1990 dallo Stato italiano. Una
complessa situazione nella quale gli abitanti si trovano
costretti a preferire l’essere ammalati piuttosto che l’esser
disoccupati.
6. “Risorse nascoste”, spreco e sviluppo”dal basso”
Renée Rochefort, una giovane studiosa di geografia sociale
francese, venuta in Sicilia tra il 1954 e il 1959, autrice di Le
travail en Sicile, una importante ricerca sulla Sicilia degli
anni cinquanta la cui traduzione italiana è apparsa nel 200539,
aveva messo in guardia contro pericolosi processi
unidimensionali di sviluppo e calati unicamente dall’alto, al
fine di dare sistematicità alle strategie e alle politiche di
sviluppo.
Il lavoro da sviluppare era di ben altro respiro utilizzando una
prospettiva di sviluppo dal basso non sganciata
dall’integrazione sociale. In primo piano Danilo Dolci metteva
la conoscenza del territorio e l’interazione sociale: Dovevamo
interpretare i racconti e i documenti alla luce delle conoscenze
acquisite, dovevamo comparare le testimonianze viventi con le
condizioni riservate altrove al lavoro e ai lavoratori.
Abbiamo voluto rischiare, e tentare una sorta di lettura globale
della realtà umana del lavoro, nella sua pluri-dimensionalità;
una specie di lettura globale applicata40.
Si può dire che il metodo della Rochefort, tipicamente
dolciano41, anticipa la riflessione più attenta sui nodi del
sottosviluppo e sulle vie dello sviluppo possibile cercando di
individuare quei “blocchi concettuali, tra loro fortemente
interdipendenti”, di cui parla Albert O. Hirschman per spiegarsi
la “combinazione” di fattori di sviluppo di un sistema
economico, e gli eventuali “blocchi”che ritardano, occultano o
impediscono il raggiungimento di determinati obiettivi42.
Che una studiosa francese fosse venuta fin qui per studiare il
lavoro in Sicilia sembrava una cosa “aberrante, offensiva”. Ma
il tentativo di superare questa diffidenza andava fatto comunque
se poteva servire a scoprire le diverse “sfaccettature della
realtà”. E così spiega le grandi difficoltà incontrate:
Cominciammo a comprendere che in Sicilia, più che altrove, senza
dubbio, la verità dipende da quanto se ne può ricavare. Gli
intervistati non riferivano spesso che ciò che ritenevano utile
che a nostra volta dicessimo. È come vedremo, la lezione di un
popolo schernito, portato per difendersi a modellare i fatti sui
suoi desideri o i suoi rimpianti, o le sue passioni. Noi, che
avevamo immaginato il problema siciliano intellettualmente più
accessibile che non quello, per dire, dell’insondabile India, ci
ritrovavamo continuamente davanti ad enigmi, misteri,
conversazioni incomplete, quando non finivamo con lo sbattere
contro quel muro di silenzio e di segreto eretto davanti a
coloro che vengono da fuori, da Roma o da Milano, da Parigi o da
Chicago. Ci capitava di cozzare pure contro una sorta di
mentalità pirandelliana, a uso esterno e interno al tempo
stesso: la gente si muoveva in un mondo in cui una qualità è
allo stesso tempo il suo contrario. Contraddizioni del genere
emergevano in particolare, beninteso, intorno a una questione
tanto controversa di solito qual è il lavoro; tesi e antitesi si
contrapponevano con il massimo di scarto, che si trattasse
dell’informazione o della sua interpretazione43.
In un’ampia ricerca sull’economia siciliana di ben 1.484 pagine,
apparsa nel 1966, finanziata e pubblicata da Feltrinelli, Sylos
Labini evidenziava il “delicato stadio di transizione” nel quale
si trovava la Sicilia, “uno stadio intermedio fra la completa
arretratezza e un processo di sviluppo capace di sostenersi da
sé”44.
Nell’aprile del 1960 si tiene nella profonda Sicilia, a Palma
Montechiaro, una delle iniziative più rilevanti che
approfondivano l’analisi sulle condizioni socio-economiche
dell’isola e sulle condizioni di uno sviluppo reale dal basso.
Ci riferiamo al Convegno sulle condizioni di vita e di salute in
zone arretrate della Sicilia occidentale tenutosi il 27, 28, 29
aprile 196045 al quale parteciparono scrittori, politici,
economisti, e sociologi di livello nazionale e internazionale e
che rimane comunque un punto di riferimento importante per
comprendere gli approcci ai problemi del sottosviluppo
nell’immediato dopoguerra in Sicilia46. In questo convegno
Danilo Dolci spiegava i contenuti fondamentali della sua
iniziativa in Sicilia che saranno definiti in Spreco47
consistenti in estrema sintesi:
1. nella critica della politica meridionalistica dello Stato
italiano “paternalistica” e mai
indirizzata ad aiutare effettivamente la crescita economica,
sociale e culturale puntando sullo sviluppo delle “risorse
potenziali”;
2. nella possibilità di iniziare uno sviluppo “dal basso”
fondato sulla piena utilizzazione
delle risorse locali, mal utilizzate per ignoranza e per
disorganizzazione;
3. nell’attuare questo progetto attraverso l’unione degli
interessati nell’ambito locale
(comuni), i quali prendano collettivamente coscienza dei
problemi e assieme elaborino delle soluzioni utilizzando anche
le competenze degli esperti e dei tecnici;
4. nell’attuare forme di pressione e di azione non violenta che
potessero stimolare la
partecipazione, la formazione dell’opinione pubblica, la
mobilitazione collettiva per
condizionare “dal basso” le politiche e l’attività legislativa
dello Stato . Nella sua relazione
al convegno Dolci metteva l’accento sullo “spreco”, sull’immane
spreco di risorse umane
innanzitutto e quindi sulla mafia e sulla violenza. Allora
spreco di cose che non vengono valorizzate, qualcosa che va
direttamente sciupato è spreco perché si spende soldi in cose
che si potrebbe avere gratuitamente, ecc. Anche in questo campo
potremmo fare centinaia e centinaia di esempi. Ma tutto questo
significa anche, tradotto in altre parole, basso livello
tecnico-culturale. Siamo di fronte ad una popolazione
intelligente, ad una
popolazione di buona volontà, è chiarissimo (in tutti questi
anni io non ho quasi trovato delle persone, non ho - posso dire
- mai trovato delle persone che non lavoravano avendo lavoro,
avendo la possibilità di lavorare): ma difficoltà a capire
quali, effettivamente, in modo preciso, sono i problemi e come
si potrebbero risolvere.
Tra tutte queste forme diverse, queste categorie diverse di
sprechi, il più grande degli sprechi diventa quello dell'uomo,
di questo uomo intelligente e di buona volontà che viene a
ridursi a lavorare, tanto sia piccolo proprietario che
bracciante, bracciante edile o bracciante agricolo, circa
100-110-120 giorni all'anno, rimanendo non valorizzato per circa
almeno 200 giorni 1'anno: e questo è il più grande degli
sprechi, perché il lavoro non è soltanto una forma per produrre,
una forma di produzione e di arricchimento, ma - voi sapete - è
un mezzo fondamentale per la formazione della personalità degli
uomini. Gli uomini difficilmente, senza il lavoro, senza i soldi
e senza il lavoro in se, possono realizzarsi proprio come
uomini; e questo è lo spreco maggiore, lo spreco degli uomini,
lo spreco delle donne che rimangono chiuse nelle loro case, lo
spreco dei bambini, non soltanto: dei bambini che muoiono (ieri
s'è detto delle cifre:muoiono fino al 10, al 10,9% com'è
capitato sei mesi anche qua, se non sbaglio) ma spreco di questi
bambini che non
riescono a realizzarsi persone, valorizzando al massimo tutta la
loro personalità, tutto quello che c'è di potenziale, di
possibile dentro di loro: questo veramente è il più grande e il
più - ieri diceva Silvio - il più criminale degli sprechi.
Cosa significa questo basso livello tecnico-culturale rispetto
al piano politico di struttura? Significa che molta gente,
essendo impossibilitata a vedere un vasto orizzonte e a vedere
più a fondo, più analiticamente, molta gente non sa
effettivamente quali sono i propri interessi e, per esempio, sul
piano politico vota, credendo di far bene, contro i propri
interessi, e questo è il fenomeno di un terzo quasi, certamente
di un quarto, della popolazione48.
L’iniziativa di Dolci e del gruppo di ricerca pluridisciplinare
che collaborava col Centro Studi, partiva proprio
dall’individuazione e valorizzazione dei fermenti culturali e
politici nella comunità partinicese, per costruire un progetto
di programmazione dal basso, di partecipazione e di intervento.
Ciò, in una società caratterizzata dal peso della guerra fredda,
dal dominio delle ideologie, dalle prassi burocratizzate dei
partiti, aveva contribuito ad accendere i riflettori, nella
Sicilia del dopoguerra, su un nuovo modo di intendere la
politica, la partecipazione, la democrazia, la formazione e
l’attuazione delle politiche pubbliche, sulla scorta del
coinvolgimento di studiosi di livello nazionale ed
internazionale e di esponenti della comunità locale si
realizzavano inedite esperienze di partecipazione e di
programmazione dal basso che si confermano a tutt’oggi questioni
centrali per una nuova concezione dei processi di sviluppo e
della democrazia. L’esperienza dolciana non è tutta
riconducibile a schemi lineari, essa non è priva infatti di
difficoltà – e a volte persino di rotture traumatiche o di
frizioni – relative ai moduli organizzativi, ai contenuti e alla
lettura dei processi socio-economici e ai nodi del
sottosviluppo. Ciò soprattutto alla svolta degli anni ’60 che
poneva agli scienziati sociali e alla politica la necessità di
una rifondazione delle categorie tradizionali di intendere lo
sviluppo, la politica, la partecipazione e la costruzione della
democrazia. Costruire società civile, opinione e volontà
collettiva significava costruire processi innovativi fondati
sulla relazione comunicativa, e sulla reciprocità,
sull’organizzazione e autoorganizzazione delle comunità.
L’esperienza dolciana e delle comunità della Sicilia
Occidentale, si collegano, in questo modo, con tanta parte della
riflessione contemporanea. Il metodo dolciano, assai lontano
inoltre – bisogna ammettere – da una certa rappresentazione
apologetica che ne viene fornita e tanto in voga oggigiorno (che
pacifica, per l’appunto, sostenitori e detrattori di Dolci),
proprio nelle sperimentazioni a Partinico ha mostrato come una
sua declinazione conflittuale, intesa come generazione di
“tensioni” e di “rotture”, non fosse altro che l’unica strada
alternativa percorribile per riuscire ad “immaginare” una
Sicilia svincolata dallo stereotipo dell’arretratezza, del
sottosviluppo, della miseria, una Sicilia liberata da immagini
sclerotizzanti di terra rassegnata alla paralisi, immune alla
modernità e al cambiamento49. Hytten e Marchioni precisavano,
dal canto loro, che prendendo le mosse dal caso Gela avevano
voluto fare un discorso valido per l’intero Mezzogiorno,
un’analisi critica delle politiche meridionalistiche e di
mettere in evidenza i risultati di un’esperienza di
industrializzazione che sarebbe stata destinata, senza le
tempestive e opportune inversioni di tendenza, ad un fallimento
tanto più grave quanto più aveva assunto il volto becero di una
capitale pubblico e privato di tipo predatorio, incurante della
società, delle tradizioni, delle vocazioni territoriali,
dell’ambiente. I ciclici disastri ecologici continuano a
tutt’oggi a richiamarci impietosamente questa triste realtà.
Questo modello di industrializzazione non piaceva neppure a
Domenico La Cavera che, con la sua Sicindustria, era uno dei
massimi sostenitori dello sviluppo industriale della Sicilia. In
merito La Cavera ebbe a precisare che al fine di una seria
prospettiva di industrializzazione della Sicilia non bastava né
l’agricoltura né il solo turismo “anche se – diceva – il turismo
è una delle cose da affrontare con serietà, perché veramente può
essere una forma di sviluppo”. Occorreva ben altro: “ci voleva
l’industria manifatturiera nelle cattedrali nel deserto, “non
tutte quelle porcherie che hanno fatto a Siracusa e a Ragusa che
hanno fatto diventare la Sicilia una pattumiera”. La
responsabilità di questo scempio era, per La Cavera, di forze
interne alla Sicilia e di colonizzatori esterni: La Sicilia è
diventata la pattumiera del Mezzogiorno per colpa degli ascari,
di coloro che per essere ben visti dalle potenze del nord, hanno
aperto le nostre porte a questi qua che hanno solo approfittato
e hanno tentato di colonizzare la nostra terra. Perché non è
vero che hanno utilizzato al meglio le nostre produzioni: loro
ci hanno abbandonato50.
Quel tipo di sviluppo calato dall’alto nuoceva anche al settore
primario. Per quanto riguarda l’agricoltura51 bisognerà
osservare che il progresso “lento e faticoso”52 del settore
primario nella piana di Gela si era verificato sulla base di
fattori del tutto estranei al processo di industrializzazione.
Tuttavia le speranze che l’industria di Stato, di fronte al
“prevedibile distacco tra l’agricoltura locale e gli altri
settori produttivi, avrebbe trovato dei mezzi di compenso ai
fini di uno sviluppo più equilibrato, finora non sono state
appagate”53.
Era del tutto evidente quali sarebbero state le conseguenze
dell’amara vicenda
dell’industrializzazione di Gela: Nel caso specifico, le cose
non potevano andare diversamente da come sono andate; che questo
determinato intervento industriale in questa realtà
socio-culturale non avrebbe mai di per sé potuto scatenare un
processo di sviluppo; che non si tratta,quindi, di ricercare le
singole responsabilità o deficienze né di indicare soluzioni
riparatorie, ma di prendere lo spunto da questo caso per
rivedere
radicalmente le premesse, gli strumenti e le finalità
dell’intera politica nel Mezzogiorno, sia essa fondata
sull’industrializzazione concentrata che su altri tipi di
intervento54.
L’ambiguità del ruolo dell’industria petrolchimica emergeva
anche nella mancanza di
incentivazione allo sviluppo di nuove iniziative industriali
locali o di sostegno a quelle modeste esistenti. Come testimonia
un caso citato nelle pagine conclusive di Industrializzazione
senza sviluppo risalente al primo periodo dell’insediamento
dell’industria petrolchimica: Un giovane imprenditore locale –
raro esempio di quella classe imprenditoriale sul quale vengono
riversate tante speranze, e che pertanto diventa anche il capro
espiatorio di tutti gli insuccessi che si producono – ebbe la
brillante idea di mettere su un piccolo impianto per la
produzione di fusti di latta di cui, ovviamente, un grande
stabilimento petrolchimico avrebbe avuto continuo bisogno. Il
calcolo era obiettivamente ineccepibile: una fabbrica moderna,
capace di assicurare il rifornimento di fusti di qualità con il
risparmio delle spese di trasporto, avrebbe avuto il mercato
assicurato dalla sola azienda di Stato. Ciò venne anche
confermato, in termini generici, dall’allora direzione dell’Anic,
e l’imprenditore commise lo sbaglio di fidarsene e di contrarre
ingenti debiti per la costruzione della propria azienda.
All’inizio della fase produttiva, invece, si rivelò che l’Ente
di Stato aveva già da tempo concordato il rifornimento di fusti
da una grande
impresa nel napoletano, ciò che mandò l’imprenditore locale
sulla strada della bancarotta55.
La stessa progettualità di Enrico Mattei basata sulla “pubblica
utilità” dell’iniziativa industriale non veniva interpretata in
ambito locale secondo l’impostazione originaria:
L’utilità pubblica, sociale del progetto era principalmente un
argomento a favore dei privilegi particolari richiesti
dall’industria di Stato per agevolare un’iniziativa
economicamente dubbiosa di cui la validità obiettiva si
riferiva, semmai, a criteri di utilità economica e di prestigio
a livello nazionale, mentre ben poco lascia credere che le
esigenze di sviluppo locale fossero tra le motivazioni che
spinsero l’ente ad insistere sull’impianto a Gela. La
constatazione che l’impianto industriale non comportava
automaticamente il rovesciamento della situazione
socio-economica e che l’industria rappresentava una realtà
sempre più avulsa dai principali problemi locali, ha perciò
motivato una tendenza a vedere il suo assenteismo come un
tradimento dei propositi originali, specie dopo la scomparsa di
Mattei che sembrava il garante paternalistico degli intenti
sociali di cui l’impianto petrolchimico sarebbe stato soltanto
la prima realizzazione56.
7. Industrializzazione senza sviluppo, un classico che ha
ancora molto da dire
Il libro di Hytten e Marchioni in pochissimo tempo sparì
dalle librerie come ha spiegato Sergio Nigrelli su la
Repubblica: Il tempo è galantuomo. Ne sa qualcosa Marco
Marchioni, un sociologo romano che alla fine degli anni Sessanta
venne a Gela assieme ad un collega svedese, Evydin Hytten, per
approntare uno studio per conto dell'Eni che affrontasse le
problematiche legate allo sviluppo industriale ed al territorio.
Doveva essere, in buona sostanza, uno studio per fare sapere
ovunque che l'azienda di Stato lavorava in perfetta sintonia con
la gente e con l'ambiente. A certificare tutto dovevano essere
proprio i due sociologi. Ma le cose non andarono così. I due
professionisti lavorarono a Gela per due anni. Considerata la
lunghezza dell'incarico portarono con loro le famiglie. Fu un
lavoro paziente e difficile alla fine del quale i professionisti
si trovarono dinanzi ad un bivio: le loro conclusioni erano del
tutto opposte rispetto al lavoro che gli era stato
commissionato. Il quadro che si erano trovati di fronte era
quello di una «industrializzazione senza sviluppo». Da qui il
titolo di un libro pubblicato da Angeli in aperta polemica con
l'Eni e con la sua collegata Anic. Lo studio fu pubblicato in
2000 copie ma nessuna di queste raggiunse i lettori, perché
l'Eni le acquistò tutte in blocco. Lo ha raccontato uno degli
autori in questi giorni a Gela per ritirare un premio. «A Gela
il libro non si trovava - racconta Mario Marchioni - e andai a
Palermo alla libreria Flaccovio per ritirare qualche copia per
gli amici. Lì mi dissero che erano finite tutte. Un signore era
passato a ritirarle in blocco». Marchioni e la vedova di Hytten
sono tornati nei giorni scorsi a Gela non solo per ritirare un
premio patrocinato dall'amministrazione comunale ma anche perché
la giunta presieduta dal sindaco Franco Gallo ha deciso di
ristampare a proprie spese quello studio che allora venne
censurato silenziosamente. Una sorta di risarcimento tardivo che
fa il paio con il fatto che l'amministrazione comunale proprio
l'altro ieri si è costituita parte civile in un processo contro
l'Eni per inquinamento ambientale57.
A distanza di quarantatré anni, è certo che il messaggio di
Industrializzazione senza sviluppo non è stato utilizzato al
fine di una inversione di tendenza, come sostenevano i due
autori, nelle politiche per l’industrializzazione, per il
Mezzogiorno, per un tipo di sviluppo in grado di avvicinare
crescita economica e benessere. L’assenza di un rigorosoprogetto
di sviluppo industriale e la tragedia dei casi Thyssen, Eternit,
Ilva ne sono la dolorosa testimonianza.. Il libro di Hytten e
Marchioni non ha certamente pesato sulla memoria storica.
Giustamente Leonardo Sciascia considerava al condizionale il
futuro della memoria. Ma ci sono molte buone ragioni per
ritenerlo un classico. Con la precisazione che intendiamo la
classicità nel senso in cui la pensava Italo Calvino il quale si
poneva una domanda precisa: come nascono i classici?
Si tratta di quei testi – rispondeva – “che quanto più si crede
di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono
davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti”. Insomma, per
Calvino “Un classico è un libro che non ha mai finito di dire
quel che ha da dire”58.
E’ ancora possibile, tuttavia, sperare nella formazione di
classi dirigenti con lo sguardo meno corto. A queste ultime
Industrializzazione senza sviluppo avrà ancora molto da dire.
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N O T E:
1 “Il termine “polo di sviluppo”, quello di “sviluppo
sbilanciato”, e quello a entrambi legato di “politica dei poli
di
sviluppo” non sono privi di consistenti ambiguità, spaziali,
cronologiche, relative all’unità definibile come polo, ai
rapporti tra poli e teorie della localizzazione, ai tipi di
relazioni tra polo ed altre entità produttive. Qui si farà
riferimento all’accezione che il termine finì per assumere nel
dibattito italiano, vale a dire una politica volta
all’insediamento in aree meridionali di grandi industrie
esterne, prevalentemente, ma non esclusivamente, di base, al
fine di promuovere la soluzione del problema del minore sviluppo
meridionale. Sarà bene ricordare che la politica dei poli si
inseriva in una più ampia politica di industrializzazione per il
Mezzogiorno; questa da un lato portava prevalentemente
all’insediamento di tali impianti in aree che avessero già
mostrato primi fenomeni di agglomerazione, dall’altro non si
esaurì nello sforzo per la costruzione di grandi imprese: varie
forme di incentivazione alla polarizzazione furono rivolte ad
imprese piccole e medie all’interno delle aree e dei nuclei di
sviluppo industriale” (Elio Cerrito, La politica dei poli di
sviluppo nel Mezzogiorno. Elementi per una prospettiva storica,
in Banca d’Italia, “Quaderni di storia economica, n.3, giugno
2010).
2 J.H. Goldthorpe, (2000), Sulla sociologia, il Mulino, Bologna
2006: 57.
3 Sulla crisi e sul futuro del capitalismo è necessario
valorizzare e sviluppare lo spirito critico, centrato sulla
riforma e non sull’abolizione del capitalismo. Si tratta di
quello spirito critico sul capitalismo contemporaneo che
caratterizza le più recenti riflessioni dello studioso italiano
Giacomo Becattini su quel “capitalismo ruggente” che
macroscopicamente esibisce un contrasto profondo «fra la
crescita generale di potenzialità di miglioramento umano e la
loro realizzazione, sempre monca e distorta» (G.Becattini, Per
un capitalismo dal volto umano. Critica dell’economia politica,
Bollati Boringhieri, Torino: 23) Becattini ritiene disumani
alcuni degli aspetti del capitalismo contemporaneo: “Tali mi
appaiono non solo le miserrime condizioni di vita di gran parte
del pianeta a fronte di larghe zone di scandalosamente esibita
opulenza, ma anche l’imbarbarimento generale dei costumi che a
me pare si leghi al trionfo del principio che c’è un prezzo per
tutto. In fondo a questa strada non ci sono il libero mercato e
la democrazia, come si vorrebbe far credere, ma, io penso, il
ferino bellum omnium contra omnes. Per non parlare della
poderosa spinta al deterioramento dell’ambiente naturale di
un’industrializzazione sfrenata, che eccede di molto la
controspinta alla sua conservazione (G. Becattini, Per un
capitalismo dal volto umano: 23]. Guido Rossi, sviluppa la sua
critica al capitalismo contemporaneo dal versante della
perversa, costante erosione delle norme:
“La continua erosione delle regole non si limita a far apparire
accettabili comportamenti individuali o collettivi, che fino a
poco tempo fa sarebbero stati aspramente (e giuridicamente)
sanzionati, ma tocca i valori su cui si reggono le società in
cui viviamo, a cominciare dal modello che, in forme neppure
tanto diverse, le ispira tutte: il capitalismo avanzato” (G.
Rossi, Il gioco delle regole, Adelphi, Milano, 2006: 11-12). Il
paradosso del sistema capitalistico diventa così “quello di
un’economia soffocata da un numero pressoché immaginario di
norme legislative, ma in realtà governata da regole che i
principali attori del sistema di volta in volta scelgono, a
seconda delle proprie convenienze, nascondendosi dietro lo
slogan della libertà contrattuale”(G. Rossi, Il gioco delle
regole: 28). “La prima vittima di questo paradosso è il cuore
del sistema:
cioè il mercato … La pratica negoziale, sorretta dalla legge,
potrebbe trasformarsi in uno strumento attivo dello sviluppo
democratico che coinvolge gli stakeholders in maniera ufficiale
e permette di pervenire a soluzioni e decisioni ragionate,
basate su una nuova forma di legittima quello di un’economia
soffocata da un numero pressoché immaginario di norme
legislative, ma in realtà governata da regole che i principali
attori del sistema di volta in volta scelgono, a seconda delle
proprie convenienze, nascondendosi dietro lo slogan della
libertà contrattuale” (G. Rossi, Il gioco delle regole:
5 Cfr. E dopo Taranto Gela. Nell'area del petrolchimico allarme
malattie e tumori. Ecco in esclusiva i dati del disastro. Nel
mirino dei magistrati, L’Espresso, 7giugno 2013. L’articolo di
approfondimento interno, La strage degli innocenti, ha il
seguente sottotitolo: Analisi della mortalità (anni 2004-2011) e
della mortalità (ricoveri ospedalieri per gli anni 2007 – 2011
nell’area di Gela. Differenza percentuale rispetto ai comuni
limitrofi. “Comune, Regione e ministero dell'ambiente – scrive
L’Espresso - sembrano voler puntare – per ridurre i danni
all'ambiente e alla salute – sugli investimenti di recente
"imposti" all'Eni. Lo scorso gennaio la raffineria ha finalmente
ottenuto l'autorizzazione di impatto ambientale che prevede il
rispetto di 200 adempimenti, "In ambito emissivo" spiegano dalla
Raffineria "sono stati prescritti limiti particolarmente
restrittivi, il 50 per cento in meno rispetto alle precedenti
autorizzazioni". L'Eni puntualizza che nell'ultimo decennio sono
stati comunque effettuati "una serie d'interventi migliorativi
in campo ambientale, con un investimento che si aggira sui 300
milioni: abbiamo realizzato un impianto di trattamento dei fumi
della centrale con la migliore tecnologia esistente, i doppi
fondi sui serbatoi di stoccaggio, la copertura del parco coke.
Sarà. Ma i nuovi dati epidemiologici che "l'Espresso" ha
consultato in esclusiva fotografano una situazione ancora
drammatica: “… Secondo gli studiosi il rischio degli uomini di
Gela di morire rispetto a coloro che vivono nei Comuni vicini è
più alto del 6,8 per cento, mentre per le donne l'eccesso è
statisticamente significativo sia sul confronto locale (più 12,3
per cento) sia rispetto ai dati regionali (più 8,2 per cento).
L'analisi delle tabelle sulla "mortalità" in alcuni casi sono
persino peggiori rispetto a quelle di Taranto. Rispetto alle
città più vicine, a Gela i maschi muoiono di più per tutti i
tipi di tumore (più 18,3 per cento), per il cancro infantile
(più 159,2 per cento), per il tumore allo stomaco (più 47,5 per
cento), alla pleura (più 67,3 per cento) alla vescica (più 9,6
per cento), per non parlare dell'incidenza del morbo di Hodgkin
(più 72,4 per cento), del mieloma multiplo (più 31,8 per cento)
e delle malattie del sistema circolatorio (più 14,2 per cento).
Alto lo "spread" anche nei confronti delle statistiche
regionali: a Gela l'incidenza dei tumori degli under 14 è
maggiore del 68,1 per cento, più decessi anche per i tumori al
fegato (più 20,9 per cento), alle ossa (32,8 per cento), al
testicolo (più 209,4 per cento) e per le malattie
cerebrovascolari (più 36,6 per cento). Sono centinaia gli operai
che hanno lavorato al petrolchimico ad esser finiti dentro i
nosocomi sparsi nella provincia di Caltanissetta. Molti di loro
hanno lavorato all'ex impianto Clorosoda, chiuso a metà degli
anni '90. Un reparto foderato d'amianto con 52 celle piene zeppe
di mercurio, usato per produrre soda caustica e idrogeno:
secondo le testimonianze delle tute blu, il metallo veniva
raccolto con secchi e mestoli. Il genetista Bianca, perito di
parte della procura gelese che ha aperto un'inchiesta su 13
decessi sospetti indagando 17 dirigenti ed ex dirigenti delle
società dell'Eni che hanno gestito negli anni il Clorosoda (le
accuse vanno dall'omicidio colposo alle lesioni personali
gravi), ha certificato le presenze di tumori ai polmoni,
all'esofago e alla tiroide, senza parlare delle malattie
cardiovascolari e all'apparato respiratorio. Gli operai
sopravvissuti oggi perdono unghie e capelli, ad alcuni si sono
sbriciolati i denti, probabilmente a causa dell'esposizione
prolungata al mercurio. I padri di famiglia impiegati al
petrolchimico, però, non sonno le uniche (e per ora presunte)
vittime del "Mostro". Centinaia di figli maschi dei gelesi sono
infatti nati malformati, colpiti in particolare dall'ipospadia,
che secondo Bianchi a Gela "risulta tra le più alte mai viste al
mondo". Ma anche le donne che non hanno mai messo piede all'Eni
hanno probabilità record di ammalarsi. Secondo le tabelle
dell'Osservatorio, oggi anziane, quarantenni e ragazze gelesi
finiscono in ospedale per tumori allo stomaco (più 25,1 per
cento rispetto a chi risiede nei comuni vicini), alle ossa (più
28 per cento), alla tiroide (più 30), al sistema nervoso
centrale (più 100,6 per cento), all'utero (più 52,6 per cento) e
via elencando.”
6 Citazione ripresa dal già citato articolo E dopo Taranto Gela,
L’Espresso, 7 giugno
9 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo.
Gela: una storia meridionale, Franco Angeli, Milano,1970: 9-108
11 P. Saitta, Spazi e società a rischio ecologia, petrolio e
mutamento a Gela, Think tank edizioni, Napoli, 2011
12 P.Saitta, Spazi e società a rischio ecologia, petrolio e
mutamento a Gela: 32-33.
13 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo.
Gela: una storia meridionale,: 8.
14 A. Mountjoy, Industrialization and
Underdeveloped Countries, Aldine Pub. Co., 1967.
15 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza
sviluppo:15.
16 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:
7-8.
19 J. Schneider, P.Schneider (1976), Culture and Political
economy in Western Sicily, Academic Press. Inc. New York, trad.
it. Classi sociali, economia e politica in Sicilia, Rubettino
Editore, Soveria Mannelli (Cz), 1989: 269-270.
20 A.Turner, (2000), Just capital. Critica del capitalismo
globale, Laterza, Roma- Bari 2002. Turner fa notare che «il
capitalismo è stato salvato dai suoi stessi eccessi grazie al
contropotere del Welfare State e dello Stato regolatore»
(Turner, trad. it. 2002: 437) e che è necessario rimettere in
discussione i rapporti tra diritto, economia e finanza,
valorizzando un aspetto fondamentale della società postmoderna
nella quale «il ruolo dei governi e delle scelte politiche è
vitale» (Turner, trad. it. 2002: 435).
21 A.Turner, Just capital. Critica del capitalismo globale:437.
22 A.Turner, Just capital. Critica del capitalismo globale:435
23 Harrison, B. (1994), The Dark Side of Flexible Production,
in: “Technology Review”, 97 (4), May/June.
24 Come spiega bene Richard Sennett: «Gli investitori ora di
gran lunga più potenti, desideravano risultati a breve termine
piuttosto che nel lungo periodo. Essi formavano il quadro di
quello che Bennett Harrison chiama il “capitale impaziente”.
Cosa importante, il criterio del successo non furono più i
dividendi, ma il corso delle azioni. Con la compravendita delle
azioni su un mercato aperto e fluido si ottennero guadagni più
rapidi – e più cospicui – rispetto a quelli che si ottenevano
conservando i propri titoli azionari. Per questo motivo i
fondi-pensione americani nel 1965 conservavano azioni nel loro
portafoglio mediamente per 46 mesi, nel 2000 questi investitori
istituzionali trattenevano i titoli in media 3,8 mesi. Le
plusvalenze sui titoli
realizzati presero sempre più il posto dei criteri di misura
tradizionali, come il rapporto quotazione guadagno – un fenomeno
che toccò il culmine con il boom tecnologico degli anni Novanta,
quando alcune aziende videro una crescita rapidissima delle loro
quotazioni pur non realizzando profitti […] Le imprese furono
sottoposte a un’enorme pressione per sembrare belle a qualche
voyeur di passaggio. E un’istituzione era considerata bella
quando poteva dimostrare di essere internamente flessibile e
capace di cambiare e si presentava come un’“impresa dinamica”,
anche se l’impresa a suo tempo stabile aveva funzionato
perfettamente. Aziende come Sunbeam ed Enron divennero
disfunzionali o corrotte quando cercarono di attrarre
l’attenzione di questa parata di investitori» (R.Sennet, (2006),
trad. it. La cultura del nuovo
capitalismo, il Mulino, Bologna 2006: 33-34).
25 A guardare ben al di là di ogni romanticismo, i processi di
globalizzazione incrementano sempre di più la complessità dei
rapporti tra economia, politica e diritto fino al punto che
Joseph Stiglitz non può fare a meno di constatare: 30 G. Moro,
Lo sviluppo nascosto. Fattori sociali e valutazione delle
politiche per il Meridione, Carocci, Roma, 2004:
«Contemporaneamente – scrive Moro – si afferma l’esigenza di
utilizzare apporti teorici e metodologici che aiutino a
comprendere meglio i meccanismi sociali che hanno consentito il
verificarsi di esperienze interessanti di crescita in certe
realtà territoriali, mentendo tutte le previsioni “ortodosse”
dei diversi approcci economici, o che hanno bloccato lo sviluppo
in altre aree che, al contrario, sembrava possedessero le
potenzialità necessarie. È innanzi tutto importante far
riferimento a una concezione dello sviluppo che non sia solo di
tipo economico, ma che riguardi gli esseri umani nella loro
totalità, secondo la lezione di Amartya Sen» (G.Moro, , Lo
sviluppo nascosto. 2004: 31].
26 K.Polanyi, (1944), La grande trasformazione, Einaudi, Torino
1974.
27 P.Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari.,2008:
244
28 P.Bevilacqua, Miseria dello sviluppo: 103-104
29 M. Di Meglio, Disapprendere lo sviluppo. Diseguaglianze e
scienze storico-sociali, in: Petrusewicz, M.-Schneider,
J.-Schneider, P., I Sud. Conoscere, capire, cambiare, il Mulino,
Bologna 2009 :36z1. cimento. E dalla sua volontà decisa e
trascinante nacquero le nuove fortune di Gela”.
31 Nel discorso all’inaugurazione dello stabilimento dell’Anic-Gela
nel 1965,il presidente dell’Eni, ing. Boldrini,
affermava: “Il minerale era di qualità così scarsa che di nessun
altro tipo analogo era stata mai tentata l’utilizzazione
industriale nel mondo. Ma il genio di Enrico Mattei – desto
sempre su ardimentose prospettive – sentiva il fascino di un
inedito.
32 V. Nisticò, La città nuova, L’Ora, 26 marzo 1960, ora in
Vittorio Nisticò, Accadeva in Sicilia. Gli anni ruggenti
dell’”Ora” di Palermo, Sellerio Palermo, 2001, II:153-154).
35 P. Sylos-Labini (a cura di), Problemi dell'economia
siciliana, Feltrinelli, Milano,1966: 142-143 .
36 P. Sylos-Labini (a cura di), Problemi dell'economia
siciliana: 146.
37 E. Del Mercato, E. Lauria, La zavorra. Sprechi e privilegi
nello Stato libero di Sicilia, Laterza, Roma-Bari 2010:
38 E. Del Mercato, E. Lauria, La zavorra:127.
Scrivono Del Mercato e Lauria a proposito dell’Eni e dell’Ente
minerario siciliano:
Ha messo nel suo carnet società che producevano bottiglie di
vetro e gestivano e gestivano alberghi e, ancora oggi, aspetta
di essere chiuso definitivamente. Ha incrociato anche, l’Ente
minerario siciliano, la storia nera d’Italia. Quando il
centrosinistra che governava a Palazzo dei Normanni decise di
metterlo in piedi, infatti, la Democrazia cristiana aveva già
trovato l’uomo adatto a guidarlo: si chiamava Graziano Verzotto,
veniva dal Veneto, ma aveva già avuto modo di ambientarsi alla
perfezione in Sicilia ….In Sicilia Graziano Verzotto rimase fino
al marzo del 1975, quando fu costretto a scappare all’estero
inseguito da un ordine di arresto: lo accusavano di aver
depositato 10.000.000.000 di fondi neri (si trattava di fondi
dell’EMS) nei forzieri della banca di Michele Sindona, altro
siciliano che ha contribuito a scrivere pagine e pagine del
romanzo oscuro della democrazia italiana” (Enrico del Mercato ed
Emanuele Lauria, La zavorra:127-128.
39 R.Rochefort, (1961), trad. it. Sicilia anni Cinquanta. Lavoro
Cultura e Società, Sellerio Editore, Palermo
41- Le iniziative di Danilo Dolci hanno segnato una stagione
significativa nella storia dello sviluppo della Sicilia
occidentale attraverso l’elaborazione e la sperimentazione di
inediti percorsi di coinvolgimento della società civile, di
costruzione di capitale sociale positivo e di partecipazione
attiva e consapevole alla vita democratica per mezzo, tra
l’altro, di una comunicazione non appiattita sul mero scambio di
informazioni, ma piuttosto orientata al valore dell’incontro e
della narrazione e dell’impegno civile. Queste iniziative
mettevano in discussione, già negli anni Cinquanta, modalità
ideologiche di impegno sociale, di costruzione della società
civile e di partecipazione. politica. L’iniziativa di Dolci
parte dall’individuazione e valorizzazione dei fermenti
culturali e politici nelle comunità di Partinico, Balestrate e
di altri centri della Sicilia occidentale, per costruire un
progetto di programmazione dal basso, di partecipazione e di
intervento. Ciò, in una società caratterizzata dal peso della
guerra fredda, dal dominio delle ideologie, dalle prassi
burocratizzate dei partiti, aveva contribuito ad accendere i
riflettori, nella Sicilia del dopoguerra, su un nuovo modo di
intendere la politica, la partecipazione, la democrazia, la
formazione e l’attuazione delle politiche pubbliche, sulla
scorta del coinvolgimento di studiosi di livello nazionale ed
internazionale e di esponenti della comunità locale si
realizzavano inedite esperienze di partecipazione e di
programmazione dal basso che si confermanonella realtà di oggi
questioni centrali nello sviluppo della democrazia. L’esperienza
dolciana non è tutta riconducibile a schemi lineari, essa non è
priva infatti di difficoltà – e a volte persino di rotture
traumatiche o di frizioni – relative ai moduli organizzativi, ai
contenuti e alla lettura dei processi socio-economici e ai nodi
del sottosviluppo. Ciò soprattutto alla svolta degli anni ’60
che poneva agli scienziati sociali e alla politica la necessità
di una rifondazione delle categorie tradizionali di intendere lo
sviluppo, la politica, la partecipazione e la costruzione della
democrazia. Costruire società civile, opinione e volontà
collettiva significava costruire processi innovativi fondati
sulla relazione comunicativa, e sulla reciprocità,
sull’organizzazione e auto-organizzazione delle comunità.
L’esperienza dolciana e delle comunità della Sicilia
Occidentale, si collegano, in questo modo, con tanta parte della
riflessione contemporanea.
42 A. O. Hirschman (1958), trad.it. La strategia dello sviluppo
economico, La Nuova Italia, Firenze, 1968.
43 R. Rocheford, Sicilia anni Cinquanta: 60.
44 P.Sylos Labini, Problemi dell’economia Siciliana,
Feltrinelli, Milano,1966: V
45 Il convegno si svolse dal 27 al 29 aprile 1960 e gli atti, a
cura di Pasqualino Marchese e Romano Trizzino del Centro Studi e
Iniziative per la piena Occupazione di Partinico, furono
pubblicati in un testo ciclostilato. Vi
parteciparono studiosi e personalità di livello nazionale e
internazionale. Fra gli altri: Giorgio Napolitano, Carlo Levi,
Leonardo Sciascia, P. Duynstee, Francesco Renda, Ideale Del
Carpio, Ignazio Buttitta, Silvio Pampiglione. Del comitato
d’onore del convegno facevano parte tra gli altri: Paul Baran,
Lamberto Borghi, Johan Galtung, Julian Huxley, Carlo Levi,
Pierre Martin, Silvio Milazzo, Ferruccio Parri, Paolo Sylos
Labini, Elio Vittorini.
Sul Convegno di Palma scrive Francesco Renda: “Il convegno di
Palma Montechiaro volle realizzare, a suo modo, quella “alleanza
fra gli uomini di cultura e le classi popolari” con l’intento di
“leggere” insieme – coloro che avevano studiato e coloro che
avevano vissuto – Palma Montechiaro come era, La Sicilia come
era. Ci riuscì solo in parte o non riuscì affatto, come si è
visto, sul terreno politico. Ottenne, invece, un qualche
risultato sul piano culturale. Almeno per quello, a tutto merito
del volume Spreco di Danilo Dolci, da allora in poi, “la terra
del Gattopardo” non fu più solo un punto nella carta geografica
della Sicilia o solo una voce nel dizionario dei comuni; né fu
più solo miseria antica e problema insoluto. L’inchiesta
igienicosanitaria
di Silvio Pampiglione divenne uno dei documenti letterari più
vibranti, pagina di scienza e di arte nello stesso
tempo”(F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, III:493].
46 Cfr. Salvatore Costantino (a cura di), Raccontare Danilo
Dolci. L’immaginazione sociologica, il sottosviluppo, la
costruzione della società civile, Editori Riuniti, Roma, 2003.
47 D. Dolci, Spreco. Documenti e inchieste su alcuni aspetti
dello spreco nella Sicilia occidentale, Einaudi,
Torino,1960.
48 D. Dolci, in Marchese, P., Trizzino, R.(a cura di) 1960,
Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate
della Sicilia occidentale. Palma di Montechiaro il 27, 28, 29
aprile 1960, ciclostilato. Dolci affronta poi i problemi del
sottoproletariato, della violenza e della mafia:
“Considerando il fenomeno del sottoproletariato, per esempio,
che vota per l'estrema destra, siamo di fronte a un caso molto
grave, un caso che affrontato potrebbe produrre effetti profondi
nella vita di queste zone e nella vita nazionale.
Dunque il primo aspetto fondamentale: una zona statica che non
arriva che difficilmente, nei casi migliori, alla coscienza dei
propri problemi, arriva attraverso alcune persone, tante volte
sono sindacalisti, politici: questi che capiscono, che
individuano i problemi, o, tante volte, non sono ascoltati o
tante volte sono fatti fuori addirittura, sono ammazzati. Ed
ecco un secondo aspetto, sostanziale, di questa zona: la
violenza. Voi sapete che esistono al mondo dei paesi più poveri
di Palma di Montechiaro e dei paesi della Sicilia occidentale,
voi sapete che in India ci sono delle condizioni anche peggiori,
ma è molto difficile trovare al mondo delle zone, dei paesi,
dove ci sia altrettanta violenza, se noi non consideriamo i
momenti di guerra, se noi guardiamo delle situazioni, diciamo
normali: non è facile trovare una zona dove ci siano dei
fenomeni, per esempio, come questi della mafia. Voi sapete le
cifre, le conoscete: nel secondo dopoguerra, secondo delle cifre
ufficiali, 520 assassinati fino al '59, più una trentina
quest'anno, sono circa 550 persone assassinate dalla mafia. Voi
sapete che 38 sindacalisti sono stati assassinati: sono cifre
che sono stato spesso ripetute, non sono state confutate, che io
sappia; e sapete poi che non soltanto c'era una ragione
economica nell'assassinio di questi sindacalisti, ma c'era
direi, una ragione più profonda: in una situazione, in una
moralità in cui è virtù, è valore, che ciascuno faccia i "fatti
propri", il sindacalista veniva considerato un "infame". Io ho
cercato di capire cosa avevano per la testa molti avversari dei
sindacalisti e mi sono accorto che questi avevano o fatto
assassinare o assassinato dei sindacalisti appunto perché, oltre
al fatto che rompevano loro le scatole sul piano economico, li
consideravano degli "infami", in quanto si occupavano dei fatti
degli altri; pensavano: e tu perché non ti fai i fatti tuoi? E
allora, è valore é virtù che ciascuno faccia i fatti propri, è
considerato fuori dalla moralità della zona chi si interessa
degli altri: per cui l'assassinio diventa una ricostituzione, in
un certo senso, di moralità. Non sto a dilungarmi su
quest'argomento, ma certo è uno dei punti da prendere di petto.
Problemi di mafia e problemi di prepotenza e di violenza sono
veramente un cancro che andrebbe studiato: io mi auguro che al
più presto l'Università di Palermo e anche altre, ma soprattutto
questa di Palermo, abbia addirittura un reparto un istituto
dedicato allo studio della mafia, perché sarebbe normale, in un
paese civile, in un paese sano, studiare i propri mali: è molto
triste, molto grave, che noi si pensi che quasi sia una
spiritosaggine pensare sia possibile che dall'Università di
Palermo si studi la mafia. Voi sapete quanto sarebbe importante
tanto più che, parlando chiaro,è molto poco probabile che il
parlamento nazionale faccia uno studio del genere, perché
difficilmente la gente, la maggioranza, andrebbe a frugare nelle
proprie magagne” (D. Dolci, in Marchese, P., Trizzino, R.(a cura
di) 1960, Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone
arretrate della Sicilia occidentale”.
49 Sul punto sia consentito rinviare a S. Costantino (a cura
di), Raccontare Danilo Dolci. L’immaginazione sociologica, il
sottosviluppo, la costruzione della società civile, Editori
Riuniti, Roma, 2003.
50 Domenico La Cavera, intervento citato da Nino Amadore in
L’eretico. Mimì La Cavera, un liberale contro la razza padrona,
Rubettino, Soveria Mannelli, 2012: 75.
51 “L’avvio della “industrializzazione” – scrive Giarrizzo – che
è dei tardi anni cinquanta, coincide con la
destrutturazione della campagna meridionale che procede con
ritmo accelerato, e segna il rivolgimento più vistoso che il
Mezzogiorno abbia vissuto: provvedimenti legislativi ed esodo
rurale portano a mutamenti dell’assetto proprietario e dei
rapporti di produzione: il capitale tradizionale lascia la
terra,e si trasferisce nella città alimentando quel boom
edilizio che negli anni sessanta e settanta travolge gli argini
basi e fragili dell’antica legislazione urbanistica, crea a
livello di potere locale coalizioni di interesse speculativo, e
di conseguenza rallenta e poi blocca l’adeguamento della
normativa (comprese le procedure per la redazione e
l’approvazione dei piani regolatori). Le conseguenze nel medio
periodo si riveleranno rovinose soprattutto per le città del
Mezzogiorno, “gravate” dalla costosa e inefficiente eredità di
centri storici di antico splendore e di recente degrado, o
arredato da troppe città presepe aggrappate ad erte divenute
franose ovvero pronte a scivolare più presso alle maglie della
complicata rete viaria del Mezzogiorno” (G. Giarrizzo
Mezzogiorno senza meridionalismo: XXVI).
52 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza
sviluppo:89.
53 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo:ibid
54 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza
sviluppo:16.
55 Industrializzazione senza sviluppo:91.
56 E.Hytten, M. Marchioni, Industrializzazione senza
sviluppo:44.
57 S. Nigrelli, L'Eni lo tolse dagli scaffali. Il Comune lo
ristampa, la Repubblica, 15 dicembre 2000.
58 Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991:
13.
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